Lo scrive oggi sull’inserto culturale del Sole 24 Ore, Moni Ovadia, concludendo il suo articolo dal titolo “L’ateo che voleva essere Benedetto”: per descrivere la posizione del teologo nel nostro tempo, argomenta Ovadia, Ratzinger ha ripreso una immagine protestante, che – appunto – paragona il teologo al clown. Benedetto XVI lo ha fatto nella Introduzione al cristianesimo (edizione Libreria Editrice Vaticana), e merita di essere ricordato per intero il passaggio di Papa Joseph Ratzinger:
“Chi oggi tenti di parlare della fede cristiana, di fronte a persone che per professione o per convenzione non hanno familiarità col pensiero e col linguaggio ecclesiale, avvertirà ben presto quanto sia ostica e sconcertante tale impresa. Avrà probabilmente subito la sensazione che la sua posizione sia descritta per filo e per segno nel noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard, recentemente ripreso in forma stringata da Harvey Cox nel suo libro La città secolare.
La storiella narra di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere; tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto di una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacchè il circo stava bruciando per davvero.
Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda…La commedia continuò così finchè il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme.
Cox narra questo apologo a titolo esemplificativo, per delineare la situazione in cui versa il teologo al giorno d’oggi, e nel clown, che non riesce a far si che il suo messaggio sia veramente ascoltato dagli uomini, vede l’immagine del teologo. Anch’egli, infatti, paludato com’è nei suoi abiti da pagliaccio tramandatigli dal Medioevo o da chissà quale passato, non viene mai preso sul serio. Può dire quello che vuole, ma è come se avesse appiccicata addosso un’etichetta, come se fosse imprigionato nel suo ruolo. Comunque si comporti, qualsiasi tentativo faccia per presentare la serietà del caso, tutti sanno già in partenza che egli è appunto solo un clown. Si sa già di che cosa parli, si sa che offre solo una rappresentazione che ha poco o nulla da spartire con la realtà.
Lo si può quindi ascoltare con animo sollevato, senza essere obbligati a inquietarsi seriamente per quello che dice. Nell’immagine si cela indubbiamente una traccia dell’imbarazzante realtà in cui dibattono oggi la teologia e il linguaggio teologico; qualcosa della pesante impossibilità di rompere gli schemi delle abitudini mentali e linguistiche, per presentare la causa della teologia come caso serio della vicenda umana.
Il nostro esame di coscienza, però,deve forse essere addirittura più radicale ancora. Forse dobbiamo confessare che questa sconvolgente metafora – per quanti valori veri e degni di considerazione contenga – semplifica pur sempre le cose.
Si, perché tutto fa sembrare che il clown, cioè il teologo, sia il vero sapiente, il quale si presenta con un messaggio limpido e chiaro. I paesani, per contro, ossia gli uomini lontani dalla fede ai quali egli si accosta sbracciandosi, sarebbero gli autentici ignoranti che vanno istruiti circa ciò che a essi è tuttora ignoto; sicchè, basterebbe solo che il clown cambi il suo costume da pagliaccio e si ripulisca la faccia, perché tutto sia perfettamente in ordine.
Ma le cose sono davvero così semplici? E’ sufficiente per noi intraprendere l’’aggiornamento’, pulirci la faccia e indossare l’abito borghese di un linguaggio secolare o di un cristianesimo a-religioso, perché tutto sia automaticamente a posto? Basta davvero cambiare spiritualmente il costume da scena, perché gli uomini accorrano con gioia e collaborino a spegnere l’incendio, che il teologo dà per esistente e per comune pericolo incombente?
Io propenderei a dire che la teologia effettivamente ripulita e rivestita di moderni abiti civili, così come in molti luoghi essa oggi si affaccia alla ribalta, fa ugualmente apparire questa speranza come ingenua. Una cosa è senz’altro vera: chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio, oppure addirittura un risuscitato da un vetusto sarcofago, che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi, e pertanto nell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro.
Allorché, però, colui che tenta di annunciare la fede possiede un sufficiente senso dell’autocritica, rileva subito come qui non si tratti soltanto di una questione di forma, di una crisi di vestiario in cui si dibatte la teologia. Nella mancanza di mordente da cui è afflitta l’impresa teologica per gli uomini del nostro tempo, colui che sa prendere sul serio il suo impegno constaterà per esperienza non solo la difficoltà presentata dall’interpretazione, ma anche la condizione di insicurezza in cui versa la sua propria fede, la potenza quasi inarginabile dell’incredulità che si oppone alla sua buona volontà di credere. Sicchè, chiunque cerchi oggi onestamente di render conto a se stesso e ad altri della fede cristiana dovrà imparare ad ammettere di non essere soltanto l’uomo mascherato, cui basti solo cambiar d’abito per esser subito in grado di istruire altri con successo. Dovrà invece comprendere che la sua stessa situazione non si distingue da quella degli altri in maniera così radicale , come gli era parso di poter pensare all’inizio. Si accorgerà insomma che in entrambe i gruppi – credenti e non credenti – sono presenti le stesse forze, sia pure con modalità differenti a seconda del campo. (…)”.