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Il fascino perenne del “muro della morte”

Mi è accaduto di sobbalzare sfogliando uno di quei libri di piccolo formato che Il Sole 24 Ore offre ogni domenica ai suoi lettori. L’autore di “La sala da ballo e altri racconti” si chiama William Trevor ed è irlandese. Un narratore come tanti altri, già pensavo sfogliando qua e là, se a pag. 69 non fossi stato costretto a un raddoppio di attenzione. I due innamorati della storia, infatti, non si rifugiano in un cinema alla ricerca di intimità ma pagano il biglietto per arrampicarsi su per una rampa sconnessa, poco più di una scala a pioli, che conduce in cima a un muro circolare di legno. Una piattaforma corre intorno alla circonferenza, con una balaustra per evitare che chi arriva lassù, come i nostri due innamorati, possa cadere nell’area sottostante sotto la spinta della folla che già si è ammassata. Ed ecco, signore e signori, che incomincia lo spettacolo. “Un ometto piccolo, rinsecchito, tutto vestito di pelle nera, con un paio di ghette rosse e un fazzoletto a pois rossi al collo, montò in sella alla moto con il motore acceso che si trovava su un piedestallo al centro della arena. La spinse avanti guidandola verso il pendio circolare ai piedi del muro e salendo gradualmente. A ogni giro che faceva inclinava di più la moto fino in cima, vicino alla balaustra a cui era appoggiato il pubblico, dove lui e la moto arrivarono in posizione orizzontale. Le assi del muro e della piattaforma vibravano, il frastuono del motore era assordante. Salutando con la mano sopra la testa, il motociclista cominciò a scendere e ripercorse la stessa traiettoria circolare. Il pubblico applaudiva e lanciava monete nella arena”.
L’autore non sa il favore che mi ha fatto, restituendomi per un attimo, con la sua descrizione, a quei miei 15 anni da troppo tempo superati. Quadro ambientale era un Luna park di MIlano, gli artisti erano tre ma il “soggetto” dell’affresco era quello, universalmente noto come Muro della Morte. I miei artisti di allora si chiamavano Ninos, Walter e Eduard e appartenevano a una famiglia di viaggianti italiani. Il clou del programma era quando si esibivano tutti e tre insieme ma con una rotazione in senso contrario. In breve: Walter, il ciclista, si avventurava fino alla parte più alta del muro così da darmi la sensazione, talvolta, che in sella a quella bicicletta potessi finire io pure. Alla base della fossa si avventurava Ninos, il leader del gruppo, viaggiando con la moto in parallelo col ciclista. Ma il massimo dell’emozione si raggiungeva quando nello spazio fra i due si inseriva Eduard, mancino, viaggiando con la moto in direzione opposta a quella dei compagni e dando la suggestione di incroci che erano autentica musica del rischio. Certo non per caso io credo, se ripassando poi per quel Luna Park vicino a casa mia dove – fosse stato solo per me – avrei vissuto 24 ore su 24, mi sarebbe accaduto di vedere l’artista che si presentava col nome di Eduard con una gamba robustamente ingessata. Erano anni di dopoguerra, quelli, in cui – in special modo fra la gente che praticava l’acrobazia – chi rischiava di più aveva maggiore garanzia di assicurarsi il pane quotidiano. Oggi abbiamo superato il 2000 e tante cose non sono come allora le vedeva quel ragazzo che ero io.
Ma sono molto grato all’autore irlandese per avermene, per un attimo, restituito la fragranza.
Ruggero Leonardi

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