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Il clown, ovvero l’arte di sopravvivere ai fallimenti


“Il succo dell’essere clown è il modo in cui si affronta il fallimento, questa è la vera anima del clown.” Parola di Avner Eisenberg. Mimo, clown, illusionista, giocoliere, funambolo, ma qualcuno l’ha definito anche il “poeta della comicità” e “l’enciclopedia vivente del divertimento”. Ha mosso i primi passi alla scuola di Jacques Lecoq, è stato attore di cinema nel film Il gioiello del Nilo, di teatro in Aspettando Godot e non si è fatto mancare nemmeno la televisione partecipando negli States alla serie tv della Abc Webster. Che fosse un fortissimo clown da palcoscenico non c’erano dubbi, ma con lo spettacolo Gravità fuorilegge, partito dai teatri statunitensi e di recente sbarcato anche in Italia, sta dimostrando doti eccellenti e il pubblico lo ripaga regalandogli un successo inimmaginabile. Circo.it l’ha intervistato in occasione dello spettacolo tenuto a Gattinara all’Auditorium Lux, all’interno del tour organizzato da “Circo e dintorni” che lo porterà anche a Barletta (18 e 19 dicembre) e il 21 a Cervia.
Hai un ricordo delle “origini” del tuo lavoro, quando ancora non eri famoso, che ti ha accompagnato durante la tua carriera?
“Una citazione interessante che ricevetti da un professore inglese, uno dei miei insegnanti preferiti all’università. E’ qualcosa che più tardi, quando iniziai ad essere clown, si dimostrò particolarmente vera. Disse: ‘Se non puoi avere successo ogni volta, impara a fallire in modo magnifico’. C’è inoltre un modo di dire russo che sostiene che i clown nascano a cinquant’anni. Quest’ultimo si riferisce probabilmente al fatto che i performers più giovani sono particolarmente concentrati sul successo, cercando di migliorare le loro tecniche. Il succo dell’essere clown è il modo in cui si affronta il fallimento, questa è la vera anima del clown. Le cose vanno male, ma il clown impara a sopravvivere, anzi ad ottenere l’effetto migliore”.
Tu sei anche un ipnotista. E’ vero che esiste un parallelismo tra la relazione artista-spettatore e quella fra ipnotista e ipnotizzato?
“Quando uno spettacolo funziona veramente si può dire che il pubblico intraprende un viaggio verso un luogo differente, si dimentica dei propri problemi, si dimentica di essere seduto a teatro ed effettivamente fa un viaggio. E veramente quando vai a vedere uno spettacolo che ti trasporta è come cadere in trance, vai in un altro mondo. E’ proprio in questo mondo, che non è quello dell’artista e nemmeno quello del pubblico, che le due parti si incontrano. L’ipnosi lavora in maniera del tutto simile”.
Qual è il tuo rapporto con il mondo del circo?
“Penso che il personaggio del clown provenga dal circo. Il clown è il rappresentante del pubblico nel mondo dei virtuosi. Il circo è il mondo del virtuoso ed io penso, ma questo è il mio punto di vista psicologico, che lo spettatore necessiti di empatia con i personaggi di ogni dramma. Nel circo apprezziamo le abilità dei performers, ma non abbiamo empatia con loro, siamo stranieri al loro mondo. Quando i primi clown di circo entravano in pista spesso presentavano parodie dei numeri di virtuosismo, andando incontro a comici fallimenti e pericoli, permettendo così al pubblico di relazionarsi con loro in una maniera differente da quella con cui ci si relaziona con i virtuosi. In un certo senso il clown è la componente drammatica del circo, che altrimenti sarebbe semplicemente spettacolo. Penso che ciò sia psicologicamente importante, sicuramente se ne è parlato molto nella teoria drammatica. Le abilità che ho imparato da giovane sono certamente abilità circensi: acrobatica, giocoleria e verticalismo, ma attualmente non ho molte relazioni con il mondo del circo”.
Hai mai lavorato in qualche circo?
“No, non veramente. Ho lavorato in un circo per due settimane, quando ero all’università, ma facevo semplicemente un inserviente aiuto-pista, portavo gli attrezzi. Sono appena stato a Cornellà, in Spagna, dove ho lavorato sotto un gran tendone. E’ stato molto interessante adattare le piccole cose del mio spettacolo ad una vasta pista con tantissimi bambini tra il pubblico, mentre solitamente i miei spettatori sono adulti e solo a volte famiglie. Non sono abituato a lavorare con persone tutte intorno a me, ci è voluto qualche accorgimento ed è stata una cosa molto bella da imparare”.
Ma in passato hai lavorato come artista di strada, davvero non sei abituato al cerchio di pubblico?
“Oh, quello è stato milioni di anni fa, all’inizio del periodo giurassico! Comunque mi ricordo di aver trovato, al tempo, alcune gag interessanti sul fatto di essere circondato. Inoltre se lavori in strada in modo silenzioso, solo le persone in prima fila possono vedere cosa fai… e nei 35 anni della mia carriera ho lavorato principalmente in teatro”.
Hai avuto il privilegio di essere inserito nella Clown Hall of Fame, di cosa si tratta esattamente?
“Veramente non ne so molto. Ne faccio parte ed è stato un grande onore essere nominato da compagni clown. E’ composta principalmente da clown di circo, ma c’è una sparuta presenza di clown teatrali, il che rende il tutto un onore ancora maggiore”.
Fino ad ora cosa ti è piaciuto di più e cosa di meno nel portare in scena il tuo spettacolo in Italia?
“In questo momento io scelgo tra le mie opportunità di tournée basandomi su due fattori: le belle persone ed il buon cibo. L’Italia è in cima alla lista per entrambi”.
Hai un costume curioso, come sei arrivato a definirlo?
“Definire il mio costume è stato veramente duro mentre il personaggio si sviluppava. Parte della soluzione venne dalla filosofia secondo la quale il clown necessita prima di tutto di avere un lavoro da fare, solo in un secondo tempo le cose gli vanno storte. Il clown non è in scena per essere divertente, è lì per fare qualcosa. Il mio personaggio si sviluppò in modo da essere in scena per pulire il palco, ma non è un personaggio grezzo, anzi, osa una punta di eleganza indossando camicia e papillon. Poi ho aggiunto alcune routines come quella con i bicchieri di carta e quella in cui mi cascano i pantaloni, che quindi devono essere larghi per poter cadere e poter ospitare attrezzi. Le scarpe sono un retaggio di quando presentavo anche funambolismo”.
Alberto Fontanella

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