Il parlificio internet colpisce ancora. E colpisce, tanto per cambiare, ai danni del circo classico che – quando si dice il brutto carattere! – si ostina a rimanere tale anche quando l’Intellighenzia pretende che tolga il disturbo. Bisogna dire che in questo caso l’articolo “Wislawa Szymborska, Kafka e il circo aziendale” (nella rubrica Le Aziende InVisibili di Marco Minghetti) si barrica, per la sua battaglia, dietro un pezzo da novanta quale è Wislawa Szymborska, fresca reduce dall’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura. Ha scritto una poesia, “Gli animali nel circo”, in cui si riverbera una ribellione a ciò che vede non dissimile da quella di tanti omini verdi, benchè le parole siano ben più altolocate. Questo dà lo slancio agli scriventi per esprimere il loro fastidio nei confronti dell’automatizzazione che coinvolge uomini e animali negli spettacoli del circo tradizionale, spegnendo sul nascere quella cosa che si chiama creatività.
Ma il bello deve ancora venire, e avviene quando si propone, come antidoto alla disumanizzazione, “il modello del Cirque du Soleil”. Quella sì è metafora della creatività circense, senza animali costretti a svolgere il ruolo degli automi. E a questo punto, scusatemi, la mia voglia di dialogare tranquillo con chi pensa diversamente da me deve finire qui.
Premetto che il Cirque du Soleil io l’ho visto in diverse occasioni e l’ho sempre considerato buona esperienza per elaborare nuove considerazioni sull’arte circense che poi avrei scritto anche sulla rivista “Sipario”. Premetto ancora che avevo effettuato per il settimanale “Oggi” una lunghissima intervista telefonica con il regista di origine italiana (al momento non ne ricordo il nome) che aveva realizzato uno spettacolo di cui si annunciava l’arrivo qui da noi, come poi è avvenuto. E aggiungo che proprio questo gli avevo espresso: qualche perplessità su uno spettacolo che può apparire “troppo perfetto”. Lui mi aveva dato ragione, su questo rischio, ma mi aveva dato la sua ricetta: “Ogni tanto io, allo spettacolo do un calcio che lo rigenera come nuovo”.
Tanto di cappello al Soleil, dunque, che giustamente non ospita animali perché infrangerebbero il ritmo degli spettacoli. Ma che c’è bisogno di falsificare il circo classico solo per apprezzare meglio una novità? Perché quello della poetessa polacca che ha vinto il Nobel è, con tutto il rispetto per la poesia, un giudizio superficiale che non risponde a verità. Naturalmente lo spettacolo di circo funziona se in pista esiste una disciplina, valida per uomini e animali, ma chi parla di automi chiamati a operare dentro il cerchio dimostra chiaramente di essere sempre e solo rimasto dalla parte di quelli che al circo ci vanno per caso, masticano la cicca durante l’intero spettacolo, e poi con la cicca nel cestino sputano lo spettacolo che non hanno visto. Il circo è attenzione continua, possibilità continua che qualcosa vada storto, capacità di mutare programma all’improvviso quando qualcosa, appunto, va storto. Il meccanicismo, semmai, è proprio nei circhi perfettini come il Soleil. Di questo mi è accaduto di parlare tempo addietro con un artista italiano, che non solo è stato maestro di sé in circo ma anche maestro dei figli tanto da averli portati alle glorie del Soleil. Troppa fiducia nell’automatizzazione dell’esercizio, diceva. Ognuno col suo auricolare, ognuno chiuso in sé, ognuno pronto nei suoi gesti ma non altrettanto pronto a tener conto degli eventuali errori di un compagno. E da buon circense italiano mi ripeteva: “Ma tu in quei momenti non puoi guardare solo te stesso: tu, all’estremo, sei lì per salvargli la vita”.
Questo è il cosiddetto “automatismo” del circo italiano, quello vero. E lasciatelo dire a un giornalista amico del circo che è stato capace di andare a vedere lo spesso spettacolo più volte di seguito e ha annotato sul taccuino che quasi mai l’esercizio effettuato nel pomeriggio era proprio uguale uguale a quello della sera. Stanchezze umane, debolezze umane, vanità umane. Metteteci quel che volete, ma sempre materia umana, che è capace di tutto e anche di far credere a un meccanicismo perfetto a chi poco s’intende di circo. Digrazia che può capitare anche alle poetesse cui non basta il Nobel per farci sapere che sono politicamente corrette.
Ruggero Leonardi