Nei giorni scorsi alcuni telegiornali hanno richiamato la nostra attenzione su un singolare esempio di amicizia con i felini. Protagonista di sequenze di pochi minuti è stato infatti un pittore ucraino, Alexander Pylyscenko (qui si possono vedere altre immagini), il quale per 35 giorni è vissuto in gabbia con la sua leonessa di nome Katia divenuta madre di due cuccioli. L’esibizione, se vogliamo chiamarla così, era motivata dall’intento dell’artista non soltanto di richiamare l’attenzione sulla propria attività di pittore di animali ma anche di raccogliere fondi al fine di istituire un piccolo zoo nella località in cui vive. Non si può negare che si tratti di immagini di forte impatto, giacchè non accade tutti i giorni di vedere un uomo che se ne sta accanto a una leonessa in un momento di travaglio quale è quello della nascita di leoncini per poi uscirsene integro come se avesse giaciuto accanto a sua moglie.
Mentre scrivo, mi raggiunge come fulmine a ciel sereno la visione di una scena da me vissuta con pochi amici per qualche minuto nella foresta di un parco nazionale ugandese. Ecco il flash. Il fuoristrada si muove lento, con noi che ci guardiamo intorno. Poi, d’improvviso, una gran frenata. Abbiamo visto una leonessa che ha appena dato alla luce un cucciolo e si appresta ad accudirlo. Peccato che la leonessa, a sua volta, abbia visto noi. Afferra il suo neonato per la collottola con i denti e poi, con un gran balzo, si tuffa nella macchia verde sparendo alla nostra vista. Invano ci fermiamo osservando il massimo silenzio. Invano spiamo con i binocoli. La mamma con il piccolo certo è là, a pochi metri da noi, non può essere andata lontano. Ma noi siamo lì armati solo della nostra curiosità e disturbarla è l’ultima delle nostre intenzioni. Certo avrei una gran voglia di tuffarmi in mezzo a quel verde protettivo non per fare il bullo ma solo per godermi la scena un altro po’. Ma so che l’unica cosa che trarrei sarebbe la reazione della leonessa, e non sono autolesionista fino a questo punto. Ciao mamma, ciao leoncino, e ci allontaniamo in punta di piedi quanto lo può un fuoristrada.
Non c’è dubbio: il momento peggiore per avvicinare un felino femmina è quando è in lei ben vivo il senso di protezione della prole. Ma questo, come abbiamo detto, non vale per quel pittore ucraino che con la sua Katia ha dimestichezza quotidiana, e non vale neppure per tanti amici circensi con i quali ho vissuto la bella avventura di vedere i felini da vicino senza correre nessun rischio. Ho vivo nella memoria un numero del settimanale Oggi, dove si è consumata buona parte della mia vita di giornalista, in cui furono stampate immagini che ben si conciliano con la storia del nostro pittore ucraino. Il mio caro direttore Vittorio Buttafava era felice di consegnare agli impaginatori le diapositive che il mio inseparabile fotografo in circo, Silvano Bergamaschi, gli aveva portato dopo un servizio realizzato presso la carovana di Eugen Weidman. Mi accade sovente anche oggi di citare questo grande domatore svizzero, su cui pure i suoi colleghi italiani si mostrano unanimi nel dirne un gran bene, perchè da lui ho avuto negli anni 70 lezioni di autentico valore etologico. Sbuffava quando sentiva parlare di coraggio dei domatori. “Se ne parla troppo”, diceva, “e secondo me è la dote meno importante. Di gente che avrebbe il coraggio di entrare in gabbia ce n’è tanta, ma questo non basta. Gli animali soprattutto bisogna capirli”. E lui li capiva, altro che. Li spiava ogni giorno, viveva a contatto di pelle con loro, anche se si asteneva dalla pratica del gioco. Perchè, mi diceva, amano molto giocare, ma poi c’è rischio di uscire da una zuffa con qualche graffio di troppo. Era invece accanto a loro nel senso di comprenderne le esigenze non appena si presentavano.
Ebbene, chi ha la possibilità di ritrovarsi quelle vecchie pagine di Oggi, può scoprire che Weidman in talune immagini maneggia con delicatezza cuccioli di tigre di poche settimane.
Questa è la testimonianza del rituale che sempre Weidman osservava quando le sue tigri erano in procinto di diventare madri. Entrava in gabbia, le accudiva, le rassicurava con quel suo tedesco di svizzero di Winterthur che all’occasione sapeva essere dolcissimo. E le tigri affidavano alle sue mani i neonati con la fiducia con cui le nostre madri affidavano i figli appena partoriti alla levatrice dell’intera famiglia. E l’esempio circense, sia ben chiaro, non deve essere riferibile al solo Weidmann. Sarebbe fare gran torto ai tanti e tanti addestratori, anche italiani, che nei giorni e nelle notti del lieto evento sono stati accanto alle amiche feline senza il minimo timore di destare in loro aggressività ma anzi, al contrario, sapendo quanto la mano dell’uomo possa risultare importante per una partoriente che non viene direttamente dai luoghi selvaggi che ho sopra menzionato ma da un albero geologico di felini nati e cresciuti in luoghi circoscritti dove sempre e comunque è sovrana la mano dell’uomo. E a questo punto, un’ombra di veleno non guasta. Solo a bambinoni vestiti di verde può venire in mente che felini nati nel circo e da decenni avvezzi a correre al comando di un addestratore possano essere ricondotti allo stato libero grazie ai miracoli di qualcuno che sta in Africa. Ma sì, certo, tutti ricordiamo la storia di “Nata libera” e dei coniugi Adamson che riuscirono a compiere il “miracolo” di restituire una leonessa alla vita libera della savana. Posso aggiungere che conservo fra i miei ricordi più cari un messaggio di ringraziamento che gli Adamson mi fecero pervenire, tramite comuni amici, a titolo di gratitudine in tempi in cui mi occupavo del mensile Natura Oggi. Ma pensare che si possa tradurre questa vicenda, vera, in un meccanismo grazie al quale automaticamente tutti i felini nati sotto uno chapiteau, a Carate Brianza come a Busto Arsizio, vengano trasferiti in massa in Africa con la certezza di fare una bella carriera da predatori è una illusione nella quale non credono più neanche gli studiosi (quelli veri). E’ un esperimento che in speciali circostanze può riuscire, non certo un metodo applicabile per tutti gli usi.
Comunque, fate due chiacchiere con Flavio Togni o con Stefano Orfei Nones. Scoprirete che gente disponibile a passare notti insonni quando la tigre o la leonessa si agitano per dare alla luce altri tigrotti o altri leoncini si incontrano anche dalle nostre parti. Fatevi indicare uno chapiteau e vi sapranno dire.
Ruggero Leonardi