Dalla tesi di Valentina Ripa, discussa giovedì all’Università degli Studi di Milano, Facoltà di lettere e filosofia, Corso di laurea magistrale in Scienze dello Spettacolo e della Comunicazione Multimediale (relatore prof. Alessandro Serena, correlatore prof. Paolo Bosisio) pubblichiamo il capitolo 10, dal titolo “Il re degli animali”. Fra i temi approfonditi nella tesi, la dinastia Togni, American Circus il tendone a stelle e strisce, Flavio Togni dall’infanzia ai primi successi, il Festival di Montecarlo, le tappe della carriera di Flavio, i suoi maestri ed ispiratori, il mestiere dell’addestratore (cavalli, elefanti, tigri, pantere e rinoceronti, l’esotismo di Flavio). Congratulazioni alla dottoressa Valentina Ripa per il lavoro svolto e per il punteggio conseguito: 110 e lode.
10.1. Non solo cavalli…
Non è difficile comprendere le ragioni che hanno indotto mass media e “addetti ai lavori” a soprannominare Flavio Togni il “Re degli animali”. Nonostante abbia più volte ribadito la netta predilezione per i cavalli (con i quali preferisce esibirsi anche oggi), la sua carriera è costellata di successi ottenuti anche con altre specie animali. L’esperienza lo ha portato ad avvicinarsi a tipologie e razze completamente differenti, dove la fatica e l’impegno costati mesi e mesi di duro lavoro, sono stati poi ricompensati da risultati eccellenti.
La caparbietà e la curiosità di “sperimentare” lo hanno portato a scegliere di lavorare con elefanti, tigri, ed animali esotici quali pantere, cammelli e rinoceronti. Non mancano nel curriculum di Flavio maiali e caprette, ma a differenza dei cugini più pericolosi, questi sono stati solo una simpatica parentesi della sua carriera.
Flavio inizia a lavorare con gli elefanti da adolescente, debuttando appena quindicenne a Tortona nel 1975, “scopre” poi le tigri nel 1979, nonostante i pareri contrari del padre e dei nonni; in seguito decide di provare anche con le pantere (sia nere che maculate) e di affiancarle, all’interno dello stesso numero, con un esemplare di rinoceronte bianco. Proprio con questa esibizione di assoluta originalità conquista nel 1990 il pubblico americano del Ringling, guadagnandosi a giusto diritto il divertente soprannome.
10.2. Sua maestà l’elefante
Tra gli animali del circo l’elefante è senza dubbio uno dei più caratteristici, secondo Flavio, per la sua abilità che contrasta stranamente con la grande mole, ma anche per il fascino esotico che suscita nello spettatore. Gli elefanti nascono come animali da soma e da lavoro, e solo successivamente iniziano ad essere addestrati per finalità legate allo spettacolo e non soltanto per rendere servigi all’uomo. Viene considerato l’animale più spettacolare: immenso e maestoso stupisce per il suo talento bonario, ma al tempo stesso può diventare estremamente pericoloso.
I pachidermi hanno un’importanza fondamentale nella vita di Flavio Togni; il primo contatto risale al 1966 quando, all’età di sei anni, cavalca la sua prima elefantessa, Dehli. Nel 1975 invece, come già accennato poco sopra, avviene il vero debutto in pista. Mentre la famiglia è in tournée con il Circo Billy Smart a Tortona, Flavio presenta un numero di otto elefanti indiani addestrati precedentemente dallo zio Bruno. E proprio con questi animali conquista il Principe Ranieri di Monaco che lo invita a partecipare al Festival di Montecarlo l’anno successivo, dove proprio grazie all’esibizione di tredici esemplari asiatici vince il primo Clown d’Argento della sua carriera.
A ben guardare gli elefanti sono gli animali con cui ha realizzato più performance e con cui ha ottenuto più successi; sicuramente una delle tante ragioni di ciò è riferibile al carattere mansueto di questi enormi compagni d’avventura, con cui non è difficile lavorare ed ottenere ottimi risultati. Sono infatti animali che accettano facilmente la convivenza con l’uomo e gli insegnamenti da questi impartiti, perché hanno un notevole grado d’intelligenza, e poiché in natura sono abituati a vivere in gruppi, non hanno difficoltà ad accettare un capobranco (rappresentato in questo caso o dal domatore oppure da un altro pachiderma). L’esperienza e la scuola degli zii (Bruno e Willy) hanno insegnato a Flavio che l’addestramento di un elefante deve avvenire attraverso esercizi graduali; devono essere adeguati alla loro forza muscolare visto che lo sforzo richiesto ad un animale così pesante deve essere proporzionato alla sua crescita per evitare danni cronici.
Come tiene a precisare il dresseur italiano, fra gli elefanti si viene a creare una sorta di gerarchia sociale, per cui tutti tendono a riconoscere un capo e ad imitare quello che fa. Questo spiega anche perché i maschi, che vivono di preferenza solitari, siano più difficili da addestrare. “L’ammaestramento dell’elefante inoltre è spesso oggetto di molte critiche, per lo più dettate da un atteggiamento emotivo e poco razionale, perché vedendo queste bestie così grosse si pensa erroneamente che debbano fare chissà quali sforzi per assumere certe posizioni. Ma se così fosse, sarebbe impossibile costringerli con la forza: l’elefante non accetta mai di essere maltrattato e soprattutto si vendica sempre”.A Flavio va il merito di aver inaugurato in Italia lo stile dei quadri per la presentazione del numero, con imponenti coreografie e ricchezza di costumi. Naturalmente al Circo Americano, complici i grandi spazi delle tre piste, Flavio ha avuto la possibilità di mettere in pratica il grande affiatamento con questi giganti; infatti a lui si deve l’originalissima routine di pachidermi e cavalli che lavorano insieme in libertà, e tanti quadri di fortissimo effetto scenico. L’effetto psicologico della visione ravvicinata di questi colossi è molto forte, e sicuramente l’evoluzione nell’addestramento e nell’estetica del lavoro circense li fa oggi apprezzare ancora di più.
Il rapporto che si viene a creare tra loro e l’addestratore non è un rapporto di dominanza, ma di fiducia e complicità, come spiega Flavio, tanto che alcuni ammaestratori hanno scelto di eliminare del tutto alcuni esercizi (come la verticale o il passo del giaguaro) che, seppur non lesivi per l’animale in senso fisico, danno comunque un’impressione distorta del rapporto animale-uomo, con una posizione eccessivamente dominante di quest’ultimo. “L’elefante è uno degli animali che ha impersonato maggiormente questo strano fascino e forte legame che esiste tra uomo e mondo animale, e che lo spettacolo cerca di far rivivere. La sua potenza, la sua forza, ed insieme la sua intelligenza, sono doti speciali di questo animale con cui l’uomo ha cercato sempre di entrare in contatto”.
Per lui dunque questo gigante dalle grandi orecchie è il miglior compagno con cui scendere in pista, l’animale con cui è più piacevole lavorare perché è quello che ha più memoria, che difficilmente sbaglia, e che quasi mai dimentica gli esercizi imparati. Come succede per qualsiasi altra specie anche loro si differenziano per temperamento: ci sono quelli più giocosi ed esuberanti, che al termine di una sessione di lavoro si avvicinano a Flavio per giocare, per ricevere una ricompensa, o semplicemente con un gesto della proboscide gli fanno capire di voler essere accarezzati, e quelli invece che, pur collaborando con il loro addestratore, pongono una zona di confine tra loro e chi gli sta di fronte. Sono dei giganti buoni in grado però di vendicarsi al momento opportuno; Flavio li paragona alle persone: ci sono quelle buone e quelle cattive d’animo, e gli elefanti assumono lo stesso atteggiamento. Nonostante la loro pacatezza si sanno trasformare in spietati assassini, e data la loro mole, il pericolo è costante. La vendetta è sempre premeditata da parte loro, perché prima studiano a lungo le mosse dell’ammaestratore e al momento opportuno colpiscono senza dare scampo.
Un simpatico aneddoto che Flavio ricorda con piacere riguarda appunto la sagacia di queste bestie. Nel 1975 dopo l’esperienza con il Circo Billy Smart, la sua famiglia è tornata a Verona, dove in ottobre il Circo Americano ha riaperto al pubblico. L’idea era quella di riproporre il medesimo spettacolo di Tortona, ma nessun componente della famiglia Togni si ricordava più la sequenza degli esercizi presentati nei tre numeri che erano stati creati. Lo zio Bruno ha pensato così di far eseguire all’orchestra gli stessi brani e questo è stato fondamentale per la memoria dei nove elefanti in pista. Senza l’imposizione dei comandi si sono ricordati tutto perfettamente ed hanno riproposto da soli lo show. Flavio, Bruno e Willy sono rimasti impressionati e non hanno potuto far altro che assecondare i pachidermi, spostando gli sgabelli da una parte all’altra della pista, a seconda dei loro spostamenti.
Tre anni dopo, nel 1978 a Roma, si è verificato un altro episodio in cui, sempre grazie all’intelligenza di questi giganti dalla pelle rugosa, si è potuto evitare il disastro totale. Durante lo spettacolo c’è stato infatti un black-out di energia elettrica durato circa tre minuti, che ha generato panico tra gli spettatori ed un po’ di ansia anche in Flavio, che al centro della pista, nonostante il buio completo, ha continuato a chiamare ad alta voce per nome i suoi elefanti: Sabrina, Carla, India, Mosli, Giulia. Quando la luce è tornata, Flavio si è ritrovato circondato da loro perfettamente disposti sui loro sgabelli, pronti ad eseguire nuovi esercizi come se nulla fosse accaduto.
Prima di poter scendere in pista con un numero di pachidermi è necessario tuttavia un buon periodo di allenamento, che deve durare secondo Togni dai tre ai quattro anni. L’età ideale per iniziare l’addestramento, ossia l’abc del dressage, non è mai sotto i quattro. L’addestramento acrobatico (che prevede la sequenza ordinata di esercizi) comincia invece verso i sei anni, quando l’animale ha sviluppato forza sufficiente nelle zampe e nella schiena. Naturalmente ad un esemplare di quattro anni (alto circa un metro e quaranta) non è logicamente possibile insegnare cose complicate. I primi basici rudimenti dell’ammaestramento sono quindi finalizzati a prendere confidenza con l’uomo, con gli spazi circostanti ed anche con la propria mobilità, in parte resa meno agile per via della mole. Flavio nei primi anni insegna loro a giocare, a spostarsi a destra e sinistra, ad indietreggiare, a sollevare le zampe in modo alternato, ad alzare la proboscide a comando, ed infine a sedersi piano sullo sgabello. Per un anno intero gli esercizi da ripetere ogni volta sono questi, fino all’età di cinque anni, quando la sequenza cambia e diventa più complessa.
La nuova sessione prevede l’addestramento a salire sulla pedana, oppure ad alzare le zampe anteriori per appoggiarsi al dorso di un compagno; al terzo anno di lavoro invece le cose si complicano ulteriormente. La struttura fisica è ormai forte abbastanza per permettere agli animali di iniziare a sedersi sugli sgabelli e di alzare poi gli anteriori, o addirittura di sollevarsi completamente sui posteriori per irrigidire e rafforzare tutti i muscoli della schiena. Arrivati a questo punto Flavio può decidere quali sequenze di esercizi introdurre nei suoi spettacoli, e portare i suoi giganti in pista.
L’allenamento giornaliero, così come lo spettacolo vero e proprio, viene vissuto dall’animale come una delle tante ripetizioni di una vita quotidianamente scandita dal susseguirsi di appuntamenti rigidamente programmati. Secondo Flavio ogni movimento insegnato ad un elefante deve essere ripetuto decine e decine di volte ed ogni successo premiato; l’ossessivo ripetersi in prova (come nello spettacolo) serve a non dimenticare quanto appreso con l’allenamento. Quello che infatti avviene in pista non costituisce solo il risultato, inteso come esito finale, di un addestramento, ma è lo specchio di quest’ultimo.
I segreti del successo di Flavio Togni si colgono durante i numeri che prendono vita sulla pista: si nota la classe, la calma, la pazienza, il feeling che si crea tra ammaestratore e animali, la tolleranza e l’intesa. “La pazienza è la qualità principale; se viene a mancare perdi anche la fiducia che l’animale ripone in te. Se un animale si agita, è in te che deve ritrovare la tranquillità”. Un’ulteriore difficoltà riguarda il sincronismo e la precisione che gli elefanti devono dimostrare nell’esecuzione del numero, il quale deve essere in ogni sua parte perfettamente composto e misurato. I pachidermi devono cioè presentarsi in pista eseguendo movimenti fluidi e tenersi alla giusta distanza l’uno dall’altro per non intralciarsi a vicenda.
C’è poi una cosa molto importante da aggiungere che riguarda il discorso sull’uso di punizioni e ricompense. L’intelligenza dell’animale è più o meno sviluppata a seconda delle specie e degli individui, ma non lo è mai tanto da poter collegare due cose non vicinissime nel tempo; ciò significa che sia la ricompensa sia la punizione per Flavio devono essere immediate: l’animale non potrà capire il perché di un premio o di un castigo, se questo viene dato a distanza di tempo dall’esercizio svolto. Questo però vale soprattutto per le punizioni, infatti se un elefante esegue correttamente tutto il numero allora può essere ricompensato anche una volta uscito di pista, ma se sbaglia qualcosa non serve assolutamente a nulla punirlo una volta raggiunta la gabbia, perché non capirà mai il motivo del castigo; l’unico effetto che si ottiene in questi casi è quello di impaurirlo e di confonderlo, tanto che alla successiva esibizione è probabile che sbagli ancora.
Il risultato finale delle azioni di stimolo dell’addestratore e dell’uso di ricompense e punizioni è di instaurare nell’animale un’abitudine, che i fisiologi chiamano “riflesso condizionato”. In tal modo, al comando di Togni, il pachiderma impara ad eseguire gli esercizi senza più la necessità di aspettarsi una gratifica.
Flavio lavora indifferentemente sia con elefanti asiatici (altrimenti detti indiani) sia con pachidermi africani. Le differenze tra le due specie non sono molte e riguardano esclusivamente particolarità fisiche. L’esemplare asiatico ad esempio è leggermente più piccolo di quello africano (che è considerato il più grande animale terrestre) e lo si può riconoscere a primo impatto dalle orecchie (più piccole e rotonde) e dalla pelle (più liscia) rispetto al cugino africano. La proboscide inoltre presenta un solo dito (una sorta di uncino ricurvo), mentre sulla testa è presente una lieve peluria. L’africano è riconoscibile invece dalla corporatura più massiccia, dall’altezza che può sfiorare anche i quattro metri, dalle zanne più grosse e curve, dalla schiena che è concava, e dal peso (può arrivare fino a sette tonnellate mentre l’asiatico al massimo fino a cinque).
10.3. Il fascino delle tigri
“La prima volta che ho desiderato entrare in gabbia avevo sedici anni, prima di partecipare al Festival di Montecarlo con gli elefanti. Quell’anno eravamo a Milano per le feste di Natale. Ho parlato dei miei progetti con mio padre e soprattutto con mio zio Bruno. Lo zio mi ha consigliato di non mettere subito in pratica i miei propositi; ricordo che mi disse che prima di preparare un numero di tigri avrei dovuto crearne uno con dodici cavalli in libertà, altrimenti sarebbe stato meglio non farlo. Io non capivo il perché, poi con il tempo tutto mi è diventato chiaro”.
A Flavio ci sono voluti alcuni anni per comprendere le ragioni per le quali lo zio lo aveva dissuaso, anziché incoraggiarlo, dall’ammaestrare delle tigri. Il motivo è semplice: dato che i grandi felini sono animali difficili e pericolosi, prima di poterli affrontare è meglio formarsi con specie meno aggressive ed imprevedibili, quali i cavalli ad esempio; la pazienza necessaria ad entrare in gabbia s’impara appunto lavorando con loro.
“A quel punto ho rinunciato ed il pensiero delle tigri è stato messo da parte. Solo nel 1979, dopo che nel nostro circo erano nati dei cuccioli, ho iniziato a provare di nascosto. Ricordo che provavo al mattino presto quando nessuno poteva vedermi, soprattutto i nonni che erano assolutamente contrari alla mia decisione”. Poi, una volta ottenuto quel che voleva, Flavio smette improvvisamente di lavorare con i felini per dedicarsi nuovamente ai cavalli. La passione però non lo abbandona e nel 1984 riprende da dove aveva lasciato. Cinque anni più tardi pensa di proporre un numero ai limiti dello straordinario per lo spettacolo di Ringling; acquista in Germania tre tigri del Bengala e comincia a provare un numero misto in cui le tre protagoniste, una alla volta, devono salire in groppa ad un rinoceronte.
Il risultato è ottimo ed il successo strepitoso, ma prima di affiancare queste due specie Flavio sperimenta la stessa routine con tigri e cavalli. Rientrato dagli Stati Uniti compra altri due esemplari: una tigre “tabi” (rosa) di nome Burma ed una bianca, Shiba. Nel 1992 prova lo stesso esercizio con le nuove arrivate: tutte e due riescono a salire in groppa al cavallo, ma Shiba ha un carattere troppo nervoso che compromette la buona riuscita del numero, e così ne acquista una terza dal colore normale, Sandra.
L’addestramento dei felini, ma nel caso di Flavio si deve restringere il campo solo alle tigri dato che con i leoni non ha mai lavorato, rappresenta qualcosa di molto attraente sia per la difficoltà, che stimola enormemente l’abilità ed il bagaglio di conoscenze dell’addestratore, sia per i suoi riflessi psicologici sul grande pubblico.
Nella famiglia Togni nessuno dopo il 1966 si è più dedicato all’ammaestramento di grandi felini, perché in seguito all’incidente capitato a Bruno (che è stato attaccato da tre leonesse) Ferdinando Togni e la moglie hanno posto il divieto assoluto a figli e nipoti di entrare in gabbia. Flavio è stato colui che ha rotto le regole e senza paura ha cominciato ad avvicinarsi a questi animali per riprendere il lavoro lasciato in sospeso dallo zio.
Nonostante il metodo d’addestramento “in ferocia” sia stato quello più utilizzato con i felini nella storia del circo, Flavio opta per lo stesso procedimento usato con elefanti e cavalli anche per addomesticare le sue tigri; tale approccio assume un significato particolare perché permette di conoscere gli animali feroci non solo come creature da ammirare e da temere, ma come animali con i quali è possibile stabilire un certo tipo di rapporto. Evita di proposito qualsiasi metodo in cui la paura dell’animale diventa eccessiva e si può quindi trasformare in un pericolo piuttosto che in una sicurezza per lui stesso.
Le motivazioni per cui sceglie di addestrare “in dolcezza” i suoi animali sono essenzialmente due: una profonda conoscenza del loro carattere e della loro psiche e l’impegno a non creare un rapporto di sottomissione uomo-animale, non un rapporto di forza ma bensì di collaborazione reciproca, dove entrambi siano consci che non ci deve essere nessun tipo di lotta per la conquista del territorio. In sostanza Flavio si comporta come se avesse a che fare con animali non feroci e ciò implica innanzitutto lo sforzo di ammansire prima la bestia e poi di insegnarle gli esercizi voluti.
Oggi nella maggior parte degli spettacoli in cui le tigri sono protagoniste si può assistere a scene di “familiarità” tra addestratore e animale: baci, abbracci, carezze. Tutte queste cose, spiega Flavio, si possono ottenere solamente con un estremo rapporto di fiducia della tigre nei confronti dell’uomo, accompagnato dal necessario rispetto, senza il quale l’esibizione mancherebbe di sicurezza.
Altro concetto importante da non sottovalutare è quello del territorio. Come tutti gli animali, anche i felini hanno un loro territorio, nel quale non gradiscono la presenza di estranei; al circo questo territorio viene rispettato e s’identifica con il carro-gabbia. E anche nella grande gabbia ogni tigre ha un suo angolo di sicurezza che è rappresentato dallo sgabello. Faticano dunque, almeno inizialmente, a condividere lo spazio con il loro ammaestratore, cioè con chi non riconoscono come un proprio simile, ma sta appunto a chi si occupa del loro ammansimento – spiega Flavio – cercare con molta pazienza di far capire loro che all’interno della gabbia il territorio diventa comune e non deve essere usato come luogo di difesa, ma di spettacolo.
Per quanto concerne le tecniche d’addestramento ogni ammaestratore ha stili e metodi propri. Alcuni preferiscono iniziare a lavorare con soggetti già maturi, altri invece, come Flavio Togni, preferiscono i cuccioli. Quando una tigre nasce nel proprio circo, ad esempio nel caso dell’Americano, è più facile entrare in contatto con lei, non solo perché si conoscono le linee di sangue dei genitori, ma anche perché mai nessuno prima ha “impartito” qualche lezione al cucciolo, e questo è fondamentale per l’animale perché evita di essere confuso con insegnamenti diversi. Flavio offre nei suoi spettacoli esibizioni che vanno incontro alla sensibilità del pubblico e che sottolineano un rapporto sereno con gli animali, senza l’ostentazione di spavalderia, ma piuttosto mirate ad esaltare la bellezza e le doti naturali delle tigri.
10.4. Le tre regine
Nel circo lavorano tre razze di tigri, nonostante le sottospecie di questo felino siano nove: quelle del Bengala, relativamente docili e molto belle; quelle di Sumatra, piccole, dal manto scuro e più difficili da addestrare; quelle siberiane, impressionanti per le dimensioni e la bellezza del manto, ma piuttosto pigre.
Ogni razza si distingue ulteriormente per le variazioni di colore del mantello. Le prime, chiamate anche tigri reali del Bengala, o semplicemente tigri indiane o bianche sono caratterizzate da una colorazione bianca del manto con strisce nere; quelle siberiane, altrimenti conosciute come tigri altaiche sono caratterizzate da una testa massiccia, un pelo molto lungo e folto di colore marrone chiaro con sfumature aranciate, mentre le striature (ben distanziate tra loro) anziché essere nere sono marrone scuro; la tigre di Sumatra invece è la più piccola tra tutte le specie esistenti ed ha un temperamento più aggressivo delle cugine siberiane.
Ma la differenza, come accennato poco sopra, si rende evidente all’interno della stessa razza anche per la colorazione del pelo; esistono infatti tigri bianche con o senza striature, tigri arancioni, ed esemplari blu. I soggetti bianchi sono considerati albini, ed hanno strisce nere o marroni con occhi azzurro-blu e pare che derivino dall’incrocio tra la specie del Bengala e quella siberiana. Le tigri golden, chiamate anche golden tabby o strawberry tiger sono una variazione di colore estremamente rara del soggetto del Bengala ed hanno una pelliccia molto spessa di color oro chiaro con strisce di color arancio debole e zampe bianche. La tigre maltese, o tigre blu è invece riconoscibile per il suo caratteristico colore blu scuro con striature grigie.
10.5. L’abc dell’addestramento
Il dressage delle tigri, come quello di tutti gli animali, si basa esclusivamente su un rapporto di fiducia e di reciproca comprensione tra l’animale e l’addestratore. La tigre deve sentire che l’ambiente in cui lavora non è ostile, che il domatore non è un nemico, ma il padrone della pista, l’animale “alpha” cioè il capo la cui indiscutibile supremazia domina sul gruppo. La profonda conoscenza della psicologia dell’animale ed il massimo rispetto sono alla base di un buon lavoro di ammaestramento secondo Togni.
Le prime nozioni vengono insegnate quando l’animale ha almeno diciotto mesi; prima di questo momento lo stesso addestratore si occupa delle bestie ma in maniera diversa: le cura, e soprattutto le fa giocare per individuarne i lati salienti del carattere. Lo stadio iniziale dell’addestramento consiste nell’attribuire a ciascuna tigre il proprio sgabello, oppure nell’insegnarle a saltare o a stare in equilibrio su una sfera. Qualsiasi metodo d’ammaestramento non persegue che un unico scopo: far comprendere all’animale ciò che il suo dresseur vuole che esso esegua in pista, in un determinato contesto e momento preciso. Naturalmente lo sforzo che Flavio fa nelle prime sessioni di lavoro è quello di vincere la resistenza, l’inerzia, il torpore e il disinteresse del cucciolo, solo in questo modo può poi proseguire con l’aggiunta di difficoltà nell’iter dell’animale da ammaestrare.
L’addestramento di una tigre richiede circa un anno per cominciare a montare un numero, e a differenza dei cugini leoni, sono meno inclini alle zuffe e più obbedienti; ottime saltatrici, eseguono facilmente la figura del debout. Il carattere di questo esemplare è imprevedibile, ma è uno dei felini più intelligenti perché impara velocemente quanto le viene insegnato e non fatica a ricordarselo anche a distanza di tempo. Anche se in apparenza può dare la sensazione di una maggiore prontezza alla ribellione, è invece capace di rispetto verso il domatore, ed ha inoltre un forte senso di responsabilità.
Le aggressioni sono rare, ma poiché si sta comunque parlando di animali, è possibile che avvengano; Flavio tiene però a precisare che anche se difficile, l’attacco di una tigre è il più pericoloso perché non lascia la preda fino a quando non è sicura di averla uccisa, e dopo una violenta ribellione è molto difficile rimetterla in pace con il resto del gruppo.
Il segreto di Togni è quello di unire tatto, fermezza e dolcezza, ripetendo numerose volte un esercizio: ad esempio non è indicato cambiare posto allo sgabello di una tigre, perché lei se lo ricorda e quindi la si può confondere e disorientare, rendendola nervosa. Sono animali molto metodici a differenza degli elefanti ed hanno un’ ottima memoria visiva che li aiuta a ricordarsi le posizioni da assumere negli spettacoli (ecco perché è meglio sistemare gli sgabelli sempre nello stesso ordine). Quando Flavio inizia il suo turno d’allenamento entra in gabbia con pezzetti di carne cruda per invogliare gli animali a fare ciò che devono imparare e per ricompensarli alla fine se hanno lavorato bene.
La prudenza non deve mai mancare perché si ha pur sempre a che fare con animali, le cui reazioni spesso sono imprevedibili e non certo sono le stesse tutti i giorni. “Sono sensibili alle manifestazioni d’affetto, desiderano essere coccolate e talvolta amano strofinare il muso per mostrare il loro piacere; ma sanno essere anche estremamente gelose e spesso con una zampata mostrano il loro carattere. Incredibile è la constatazione di quanto è grande questo desiderio d’affetto in contrasto con l’aggressività e la ferocia tipiche della loro specie”.
10.6. Pantere e rinoceronti. L’esotismo di Flavio
L’eclettismo che Flavio mostra costantemente nella sua professione ha certamente contribuito a costruirne il talento. Un eccellente addestratore dovrebbe essere in grado, infatti, di mettere alla prova le sue capacità con diverse specie animali e non sedimentare invece le sue attitudini soltanto con una specifica tipologia. Togni ha dimostrato che, se il metro di misura per essere considerato bravo è dimostrare di saper essere versatili ed in grado di spaziare da cavalli, elefanti, tigri, ad animali meno conosciuti al pubblico, allora lui è uno dei migliori nel panorama attuale dell’ammaestramento. Basta dire che Flavio ha lavorato anche con pantere (sia nere che maculate), cammelli, zebre e perfino un rinoceronte per capire la grandezza di questo artista.
I numeri di pantere, altrimenti dette leopardi, presentati negli spettacoli circensi sono rari sia per la difficoltà di procurarsi questi felini, sia per il difficile carattere che mostrano di avere, che per il troppo faticoso e lungo iter d’addestramento. Se per ammaestrare un gruppo di tigri ci vuole poco più di un anno, per creare un numero con le pantere sono necessari più di due anni di prove continue.
Gli esemplari utilizzati per gli spettacoli possono essere soggetti maculati chiari (provenienti dall’Africa), pantere dal pelo scuro (Asia), oppure soggetti con manto maculato molto scuro provenienti invece dalle isole della Sonda. La pantera nera dunque, quella più conosciuta, non identifica una razza o una sottospecie particolare, ma tale denominazione viene utilizzata per descrivere ogni esemplare di leopardo che ha la particolarità di possedere il mantello di colore nero (o molto maculato) per un eccesso di pigmentazione; se si osserva molto da vicino o in controluce, infatti, si possono scorgere le classiche macchie da leopardo che spiccano perché sono leggermente più scure rispetto al colore nero di fondo.
Questo animale, grazie al suo colore molto appariscente, gode per certi aspetti di una maggiore notorietà rispetto al leopardo classico, ed è stata sovente descritta come quella più feroce tra i suoi simili, probabilmente a causa del significato negativo associato comunemente al colore scuro. Si classifica tuttavia come uno degli animali dalle reazioni più imprevedibili, quindi, è abbastanza difficile addestrarla- come spiega Flavio -perché esige un’attenzione costante da parte del domatore.
Per lui nulla però è impossibile; nel 1985 infatti inizia il suo primo esperimento con due pantere, che inizialmente avrebbero dovuto scendere in pista insieme a due cavalli e due elefanti. A causa di alcuni imprevisti, l’intenzione viene momentaneamente accantonata, ma quattro anni dopo il destino rimette di nuovo Flavio alla prova: il direttore del RBBB, Kenneth Feld, scrittura tutti suoi numeri per il debutto oltreoceano e gli chiede se sia possibile allestire un numero misto di una tigre ed un rinoceronte. La risposta positiva di Flavio è immediata anche se apporta una piccola modifica alla richiesta di Feld. Non sarà la tigre a lavorare con il giovane rinoceronte bianco, Thor, ma un bellissimo esemplare di pantera nera di nome Bagueera.
La ragione di tale cambiamento è dovuta al fatto che, dato che il numero avrebbe dovuto debuttare nel novembre di quell’anno, non ci sarebbe stato tempo per montare una routine con una tigre. Bagueera invece era già abituata da tempo a salire in groppa a cavalli ed elefanti e dunque non avrebbe comportato nessuna differenza per lei saltare sul dorso di un rinoceronte. L’unico dettaglio era che non provava più da quattro anni, per cui Flavio ha dovuto impegnarsi al massimo per riuscire ad organizzare tutto in pochi mesi. Dopo lo strepitoso successo Flavio modifica lo spettacolo per il secondo anno da Ringling e decide di affiancare al rinoceronte due nuove compagne, tre tigri. Inizialmente ci sono alcuni problemi, dovuti all’abitudine di Thor a lavorare con Bagueera, ma poi si crea una perfetta sintonia anche con le nuove compagne.