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Daniel Romila: “Nel circo la gente s’incontra e non si lascia più”

Daniel Romila in Casa dolce casa (le fotografie sono di Stefania Ciocca).
Daniel Romila è originario di Bucarest. La sua storia, così come quella dei bambini di strada durante il regime Ceausescu, ha colpito molti, sin da quando Daniel ha cominciato a girare l’Italia con il gruppo nato dal clown Miloud, a sua volta espressione di una vicenda personale e artistica molto ricca e avventurosa, che lo ha portato a dar vita alla Fondazione Parada.
Dalla emarginazione al riscatto e alla riscoperta di sé con un ruolo preciso e con una dignità ritrovata grazie agli strumenti del mestiere che animano e colorano il circo. E’ questa la peculiarità di Daniel Romila. “Il circo mi ha dato dignità, rispetto e forza per andare avanti”, ama ripetere. La sua vita è tornata a brillare grazie a quel fenomeno ormai molto conosciuto che va sotto il nome di circo sociale. Per lui è poi arrivata una formazione artistica ad alti livelli e la partecipazione a festival ed eventi vari, l’esperienza del Circo della Pace e la produzione che ha incontrato un notevole successo: Casa dolce casa.
Lo abbiamo intervistato alle Giornate sull’arte circense in corso di svolgimento all’università di Milano, dove Daniel tiene il laboratorio di giocoleria.
Come è iniziato il tuo percorso di formatore?
Qui in università è iniziato grazie ad Alessandro Serena, mentre il mio personale è iniziato prima a livello sociale e poi artistico. La mia è una storia di chi si forma nel sociale, diventando poi insegnante di tecniche di giocoleria e acrobatica a terra. Ho anche delle nozioni di trapezio ed equilibrismo su filo ma principalmente giocoleria e acrobatica sono le mie specialità collegate al teatro di ricerca. Tutto è iniziato nella sfera sociale e a quella artistica sono passato attraverso un percorso con grandi compagnia, prima a Londra con Graham per un progetto chiamato The longest story in the world e poi in Olanda presso il circo di Rotterdam. Nel periodo londinese al lavoro con la compagnia di teatro affiancavo un progetto artistico insieme a dei ragazzi provenienti dal carcere: potevano uscire solo durante la giornata e alle 19 dovevano rientrare in istituto. È stato importante questo background per vivere e imparare ad integrare l’aspetto formativo con quello artistico.
Che importanza ha il sociale nella formazione?
È la chiave del successo. Innanzitutto perché formare non significa che uno comanda e l’altro fa. Significa incontrarsi, porsi sullo stesso livello, parlare ma saper comunicare senza un linguaggio verbale. Prima che un trapezista arrivi a toccare il trapezio deve toccare se stesso. Prima che io inizi ad insegnare la giocoleria o faccia usare due o tre palline, un ragazzo deve essere in grado di portare un sacchetto della spesa.
Daniel tiene il laboratorio di giocoleria alle Giornate sull'arte circense all'università di Milano.
Come si sintetizza questo discorso qui all’università?
Si sintetizza molto bene. Non so cosa i ragazzi si aspettassero ma so cosa mi aspettavo io da loro. Lo scopo del laboratorio non è far diventare i partecipanti dei giocolieri ma mostrare loro tante situazioni diverse e poi loro sceglieranno quella che preferiscono. Io sono certo che dei 100 e più partecipanti al laboratorio almeno 50 continueranno a praticare quello che hanno imparato. Nel giro di due giorni ho visto un cambiamento che in una scala da uno a dieci si colloca a livello di otto.
Su cosa hai puntato?
Sui valori che contano davvero, sul guardarsi, toccarsi, fidarsi. La cosa più bella del circo è che è una forma d’arte attraverso la quale la gente si incontra e non si lascia più. Si creano dei legami faticando, ridendo e piangendo insieme.
C’è un problema che hai riscontrato lavorando coi ragazzi qui in università?
Sì, che non hanno spazio per la pratica. Venendo qui in questi anni mi sono reso conto che questi ragazzi hanno sete di provare, durante il mio laboratorio si sfogano ma io non sono uno sfogo. Non hanno spazio né possibilità di fare qualcosa di pratico. Ieri il prof. Bentoglio mi ha fermato per ringraziarmi di quello che faccio, non solo praticamente, ma anche a un livello più profondo mostrando come dal basso si possa arrivare ad insegnare. Questi ragazzi sono aperti, non come i ragazzi che incontro in luoghi di disagio.
A questo proposito: tu hai lavorato con futuri attori come quelli della scuola Paolo Grassi, con ragazzini dei campi rom, con bambini e ragazzi delle scuole più disparate e coi carcerati. Che differenze o similitudini riscontri nel tuo approccio al lavoro con loro o nel loro rapportarsi a te e alla disciplina?
Da parte mia il rapporto non cambia, io tratto tutti alla stessa maniera, ovviamente a seconda delle situazioni. Per esempio qui so a cosa vado incontro, so che si tratta di studenti di scienze dello spettacolo, che sono attenti e sono all’interno di un’istituzione. Anche in carcere sono dentro un’istituzione ma vi sono costretti. Quando io lavoro coi carcerati o in ambito medico bisogna prima operare una parte preliminare che obbliga a parlare con dei responsabili, con degli psicologi o chi per essi. Poi il lavoro e i risultati sono gli stessi. Nei campi rom invece è diverso, non vai a mostrare quello che tu sai fare ma si punta su ciò che loro sanno fare. Non è necessario iniziare a lavorare subito, si può fare anche domani, l’importante è avere il tempo per conquistarli, e finché loro non ti aprono le porte è inutile, quando te le aprono puoi fare quello che vuoi. Diverso ancora è stato alla Paolo Grassi, lá volevano diventare artisti ma prima era necessario partire dal lato umano. Il circo non è teatro, a teatro c’è un singolo che si veste da personaggio e che lo interpreta con la voce, con uno sguardo, con una luce e un costume. Al circo devi fare il clown, il trapezista, il giocoliere.
Insomma una sfida…
Si, una sfida. Mi piace molto ribadire, soprattutto nel campo formativo, che chi viene dal circo può fare teatro tranquillamente, il contrario non è altrettanto semplice.
Stefania Ciocca