di Alessandro Serena
Il legame fra circo e sport è più antico, profondo e mutuamente proficuo di quanto si possa immaginare. Proviamo a capirci qualcosa. Una delle definizioni più calzanti del circo è quella di Massimo Alberini (1909-2000), per mezzo secolo critico circense del Corriere della Sera: “Un insieme di virtuosismi del corpo, esibizioni di animali e clownerie che si svolgono in una pista rotonda.” Quindi l’essenza si riferisce a tre manifestazioni dell’essere umano. I virtuosismi del corpo sono in relazione al tentativo di superare i propri limiti. L’ammaestramento di animali è in relazione al desiderio di incontrare l’altro da sé. La clownerie è in relazione alla capacità di superare il fallimento e ridere di tutto ciò.
Il più ovvio punto di contatto con le Olimpiadi riguarda i virtuosi del corpo, il tentativo di passare oltre alle proprie capacità, negli stadi in competizione con altri atleti e per il primato, al circo con se stessi e per il godimento del pubblico. Gli obbiettivi sono diversi ma il modo di arrivarci spesso simile. Il culto del fisico, gli allenamenti continui per raggiungere e mantenere risultati importanti, persino le origini, che in entrambi i casi si perdono nella notte dei tempi e che sono spesso una sublimazione delle attività belliche e di caccia, un modo per mantenere in allenamento i combattenti, poi trasformato in attività ludica. Questo accade da secoli in tutto il mondo. In Cina, nella dinastia Han, dal 206 a.C. al 220 venivano organizzati i “Cento giochi”: una serie di gare alle quali partecipavano i migliori di ogni disciplina. Vi erano futuri sport come la lotta e le corse con i cavalli, ma anche giocoleria, canto, imitazione di suoni, recitazione e danza. Durante le visite di diplomatici stranieri i cento giochi venivano celebrati all’interno di grandi feste nelle quali si tenevano sfarzosi spettacoli, un po’ come per le cerimonie di inaugurazione di oggi.
In occidente uno dei primi libri sul tema è del 1589. Si tratta di Trois Dialogues de l’exercice de sauter et voltiger en l’air dell’italiano Arcangelo Tuccaro, con dedica al re del reame di Napoli: un manuale per tenere in allenamento i combattenti a riposo che conferma l’attiguità dei generi anche in quel periodo storico.
Il circo ed il suo cugino, il teatro di varietà, vivono il momento d’oro proprio nell’era dell’avvento dello sport, fra l’Otto e il Novecento. Basti pensare che nel 1896 vennero tenute le prime Olimpiadi moderne della storia e nacque la Gazzetta dello Sport. A quei tempi acrobati e atleti frequentavano spesso gli stessi luoghi di allenamento utilizzando metodi di training fisico distinti ma con molte similitudini. Nel 1902 Alberto Zucca, “insegnante di ginnastica nelle Scuole normali e governative del Regno”, pubblica Acrobatica e atletica per i tipi di Hoepli, nel quale elenca le tecniche della gente di spettacolo e dello sport.
Del resto in quel periodo e nei decenni successivi, in particolare in Italia, molti ginnasti si convertirono in artisti di circo, fondando alcune importanti dinastie circensi. Walter Nones, il marito di Moira Orfei, è figlio di uno sportivo trentino caduto ai piedi di una bella acrobata.
Ma l’esempio più celebre (e triste) è quello di Alberto Braglia (1883 – 1954), uno dei più grandi atleti italiani di sempre, tre volte campione olimpionico di ginnastica artistica (Atene 1906, celebrative, Londra 1908, Stoccolma 1912). Dopo i trionfi sportivi ottenne successo nel mondo del circo e del varietà internazionali con un numero di acrobazia ispirato a Fortunello e Cirillino (noti personaggi del Corriere dei Piccoli). Tornato nel 1924 in Italia, si dedica all’insegnamento di ginnastica e porta la nazionale italiana al successo delle Olimpiadi di Los Angeles del 1932. I bombardamenti del 1944 lo riducono in miseria. Diventa allora bidello destinato alle pulizie in una palestra di Modena che portava il suo nome ed era stata inaugurata da Vittorio Emanuele III.
Non sempre è necessario inventarsi un numero, spesso gli sportivi sono entrati sotto il tendone con match dimostrativi (come dimostrano gli studi dello storico Marco Martini). Così grandi circhi fra l’Otto e il Novecento hanno ospitato campioni di lotta libera, stelle del sollevamento pesi, persino podisti e molto spesso pugili, fra i quali addirittura la gloria italiana Primo Carnera, attirando folle di appassionati. Negli anni ’50 è nata una disciplina chiamata Acrosport che al contrario presenta esercizi di acrobatica circense codificati in differenti formazioni: duetti femminili, maschili e misti, terzetti femminili e quartetti maschili.
In seguito il fulcro della contiguità fra artisti e ginnasti si sposta a est, quando Mosca diviene celebre per il Circo di stato. Lì, a partire da metà del secolo scorso, i registi fanno man bassa di ex ginnasti catapultati, è proprio il caso di dirlo, sotto le luci dei proiettori. Di recente questa pratica è stata ripresa dal canadese Cirque du Soleil, i cui responsabili del casting visitano le competizioni sportive alla ricerca di talenti.
Altri punti che accomunano circo e Olimpiadi e ne accrescono il fascino sono la grande varietà e difformità delle discipline, la conseguente diversità dei tipi fisici, le specialità nazionali o geografiche. I lottatori di sumo sono orientali, i trapezisti sudamericani, gli spadaccini italiani, i giocolieri spagnoli. Per anni gli unici cinesi che si vedevano per il mondo erano acrobati o campioni di ping pong. Persino il lato oscuro del circo, quello del Side Show, dei freak, è in qualche modo presente alle Olimpiadi. Ci sono giganti (i giocatori di basket), nani (i fantini), donne cannone (le nerborute lanciatrici del peso) e così via, ma sia al circo che nello sport i paradossi fisici hanno un senso profondo e fanno capire che nella vita c’è posto per ognuno, che la perfezione è un concetto vago e che piuttosto vanno premiati impegno e costanza.
Per quanto riguarda l’ammaestramento di animali, non tutti sanno che la pista deve la sua forma circolare alle discipline ippiche, da cui il termine “circo equestre”. È interessante notare come quelle equestri siano anche le uniche discipline con animali previste nel più alto contesto dello sport agonistico, come a riprova che l’antico ed ancestrale legame fra uomo e cavallo sia più forte del tentativo di spezzarlo di qualsiasi associazione di integralisti, che non vorrebbero animali né al circo né nello sport.
Infine la clownerie. Sembra essere il punto più distante fra circo e sport. In realtà il contatto è semplicemente più profondo e meno facile da intuire. Il clown, al circo, è in sostanza l’uomo che fallisce, che inciampa, che arriva ultimo. Ma che è capace di ridere di tutto ciò, o quantomeno di farsene una ragione e trovare la forza per ripartire. Certo, quando vediamo Dorando Pietri tagliare il traguardo stremato non ci viene da ridere. Ma la sostanza è quella. Il clown ci ricorda la fragilità dell’essere umano e interpreta alla perfezione il motto di De Coubertin: “L’importante non è vincere ma partecipare.”
L’articolo compare su Hystrio.