di Matteo Colombo
Che poi, alla fine, anche se non ti sembra il caso, arriva il momento di chiedertelo. Cioè, ci pensi prima o poi. E lasci che la curiosità prenda il sopravvento. La domanda è: ma chi saranno i miei lettori? Ti immagini il volto, l’età, la loro casa. Dopo, quando trovi la risposta; quando li rintracci, anche per caso, capisci che la realtà supera sempre la fantasia.
Per esempio, io non avrei mai detto che tra i lettori del mio racconto “Magari disturbiamo”, uscito tra gli Inediti d’autore del Corriere della Sera quattro mesi fa, un racconto che parla del circo di Cesare Togni, ci fosse anche suo figlio.
Invece, qualche settimana più tardi, ricevo una mail di Alex. Appunto.
Una bella mail. Piena di gratitudine. E con una promessa: “ti invito alle serate inaugurali del 36° Festival del circo di Monte-Carlo”.
Naturalmente ci sono andato. Giusto perché i sogni, quando intuisci che si possono realizzare, non devi abbandonarli.
Il mio sogno si perde nel tempo. Inizia quando ero bambino, piccolissimo, nel primo circo della mia vita: manco a dirlo, Cesare Togni. E tutto torna, tutto ha un senso. Come se ancora oggi, che Cesare non c’è più, lui stesso, attraverso suo figlio, mi facesse un regalo. Da Cesare in poi non ho più smesso con il circo. È grazie a lui che mi è entrato dentro. È lui che, trascorsi più di trent’anni, continua a farmi vivere certe emozioni.
Alex è un signore distinto, elegante, gentile. Ma è, soprattutto, pieno di umanità. È questo che penso giovedì 19 gennaio quando lo incontro davanti allo chapiteau di Fontvieille. Attorno c’è Monte-Carlo con le sue stelle, la sua notte, i suoi profumi di mare e champagne e olio di motori. Addosso, sulla mia pelle e sulla pelle di Alex, sulla mia giacca blu e sul suo paltò marrone, c’è profumo di circo. Quello vero. Quello di una volta. Quello messo su, ideato, coccolato, sognato per… i bambini. Alé. Lo spettacolo può incominciare.
È il momento. L’orchestra di Reto Parolari attacca con la sigla di apertura; Petit Gougou, nel ruolo di monsieur Loyal, sta per aprire bocca; i primi artisti, della Troupe Cherifian, stanno per invadere la pista; la famiglia reale si è accomodata tra gli applausi. Ma per me è già abbastanza. Va già bene così. Sono già – effettivamente – contento. Il prodigio si è già compiuto. Mi sembra di essere tornato a quella sera, accompagnato dai miei genitori, nel palco, proprio lo stesso palco, dal quale ho conosciuto Cesare, Romualdo Simili, gli uomini volanti sul trapezio, i cavalli dell’alta scuola e, grazie a loro, la meraviglia, la tenacia, il coraggio. I valori che il circo trasmette e che dovrebbero, oggi più che mai, appartenere ad ogni uomo. Va già bene così perché il palco C, dall’inizio, mi sembra una piccola famiglia nella quale vengo accolto e ospitato.
Poi, intanto, lo spettacolo prende il largo. E c’è da trattenere il respiro, da sgranare gli occhi. Ad ogni numero mi volto verso Alex. Lui commenta, sorride, mi spiega. Per me non è soltanto il Festival di Monte-Carlo, è il Festival di Monte-Carlo come il circo di Cesare Togni. Bastano le parole di suo figlio. Le parole bastano sempre quando sono vere. E Alex ricrea la magia del circo, senza mai esagerare, senza mai strafare. Era eccezionale lo spettacolo di Cesare perché custodiva la bellezza della verità; delle cose semplici; dell’autenticità. Quel tratto inconfondibile risuona nel parlare di un figlio che, anche se oggi si è fermato, è un uomo di circo sempre.
Ogni tanto scambia uno sguardo d’intesa con Rita, già presentatrice sotto l’antico tendone, donna ricca di vitalità. Ogni tanto rilegge un numero, un esercizio, con Heros, patron del Medrano, generoso, altruista, entusiasta e… goloso come me. Ogni tanto mi fa notare ciò che ai miei occhi è invisibile.
Ora, se dovessi dire ciò che mi ha colpito di più nelle due serate del Festival, avrei l’imbarazzo della scelta. Tutti sono stati bravi; forse non tutti all’altezza della kermesse. Allora dico di chi, secondo me, è stato strepitoso. Intanto Cai Yong, equilibrista, enfant prodige dell’arte acrobatica cinese. Poi i Casselly, sia nel dressage dei quattro cavalli andalusi e dei sei elefanti in libertà, sia nel numero degli elefanti soli che si è meritato ben tre standing ovation grazie alla superba prova del quindicenne René Casselli. Brave le Azzario Sisters (Quincy Santos, diciotto anni, e la sorella Katie, ventitre anni) nel loro “mano a mano”. Bravissimi i francesi Jonathan e Solenn Pilar sui pattini a rotelle che mi hanno colpito alla pari del giovanissimo giocoliere Ty Tojo. Infine, è stato un piacere assistere alla prova del domatore ucraino Vladislav Goncharov che, a dispetto di un’esibizione un po’ troppo prolungata, ha ballato il tip tap davanti a dieci leoni, facendoli muovere, ruggire e saltare a ritmo di musica. Di certo, il caloroso pubblico del Festival non ha mancato di trattenerlo in pista con i suoi applausi.
Anch’io, come Vladislav, non me ne sarei più andato da lì. Mi piaceva guardare, annusare, lasciarmi trasportare. Che poi, al circo, c’è sempre uno spettacolo nello spettacolo. E poi ancora un altro. All’infinito. E dentro, nell’ultima scatola, lo spettacolo offerto dalla gente. Molti volti noti; tante storie.
Così, quando sono partito, sabato mattina, ho pensato che dovevo decidermi. Non è stato facile. Ma alla fine ci sono riuscito. Mi sono portato via da Monte-Carlo alcune “cose” che non dimenticherò facilmente.
Uno. Gli occhi grandi e pieni di dolcezza di Nevia Togni, figlia di Darix. Che nella sua vita ha avuto la sensibilità di dare all’arte nuovi significati. E adesso me la sono ritrovata lì, a bordo pista, e anche, e soprattutto, al numero 5 di rue Princesse Caroline, alla galleria Carré Doré dove, fino al 29 gennaio, sono esposti i suoi quadri. Non vorrei esagerare, ma per me sono dei capolavori. Nel senso che hanno l’aura, l’aura dei capolavori. Raccontano il circo, ma non solo. A volte il tendone è un pretesto per narrare la vita. Con le sue maschere, le sue tentazioni, i suoi lustrini. Sono spettacolari in questo senso. Ma non sono solo dei “numeri”. Ti costringono ad entrare al circo e poi ad uscire, a vagare per le strade della tua città, della tua anima. Sono anche cinema, in fondo. Sono colori vivi da manifesti itineranti e sono manifesti rimpianti. Sono malinconie. Sotto ci serpeggia il desiderio, il sesso se volete. Ma non li vedi. Li avverti. Ecco, quando un quadro non mostra, ma suggerisce, per me è un opera d’arte. Due. La classe di Ekatarina. Un’algida e, nello stesso tempo, sensuale artista russa che con il suo compagno ha fatto roteare in aria una miriade di cappelli rossi. Solo quelli. Cappelli. E mentre eseguiva il suo esercizio, mentre Maxim ci dava dentro sulla colonna delle sedie, lei sembrava persa nel suo mondo, come se stesse percorrendo una strada tutta sua che, secondo me, la stava riportando diritta verso la sua infanzia. Tre. L’imbarazzo di una giovane atleta dell’allegra brigata dei Vorobiev che non è atterrata giusta sulla sua altalena.