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Al San Carlo “Pagliacci” in versione nouveau cirque

Daniele Finzi Pasca

Dal 17 al 24 luglio al Teatro San Carlo va in scena il nuovo allestimento di Pagliacci, la celebre opera di Ruggero Leoncavallo, per la regia di Daniele Finzi Pasca, autore di creazioni di successo per il Cirque du Soleil e il Cirque Eloize. Una prima che già attira la curiosità di molti e che viene anche pubblicizzata in stile circense: in giro per le strade di Napoli gli acrobati della compagnia Finzi Pasca incuriosiscono i passanti con qualche assaggio dei loro numeri, mentre gli attori distribuiscono coupon per assistere agli spettacoli. Musica e libretto di Ruggero Leoncavallo, dunque, direttore Donato Renzetti e regia di Daniele Finzi Pasca. Maestro del coro Salvatore Caputo, coreografie Maria Bonzanigo, scene Hugo Gargiulo, costumi Giovanna Buzzi, disegno luci Daniele Finzi Pasca. Gli interpreti sono: Kristin Lewis (Nedda), Carl Tanner (Canio), Dario Solari (Tonio), Francesco Marsiglia (Beppe) e Simone Piazzola (Silvio).
Orchestra e coro del Teatro di San Carlo, che cura il nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Campania dei Festival.
L’opera di Leoncavallo mancava dal Lirico di Napoli da circa trent’anni (ma in tutto è stata rappresentata ventiquattro volte, la prima il 14 gennaio del 1893) e sarà proposta senza il consueto abbinamento con Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni.
“Quando ho ricevuto la proposta dal Teatro di San Carlo di realizzare questo allestimento, è come se avessi ricevuto un regalo. Pagliacci è un titolo che sento molto vicino alla mia natura e alla mia estrazione artistica. Mi interessava ragionare sulla ‘dimensione del pagliaccio’, e perciò nella mise en scène ho voluto che tutti i personaggi fossero dei clown”, ha spiegato Finzi Pasca. “In più, c’è la presenza centrale degli acrobati, i quali rappresentano ‘doppioni’ dei protagonisti del dramma. Colombina, ad esempio, ha più ‘ombre’, e quando muore, muoiono dieci figure. Questo, per amplificare le emozioni e la dimensione di ogni singola immagine sul palco”.

Sulla fortuna di Pagliacci, pubblichiamo un articolo di Maria Vittoria Vittori.

Tra tutte le costellazioni di simboli fiorite nel corso del tempo intorno alla figura del clown, una delle più luminose, persistenti e in un certo senso fuorvianti è quella sorta intorno alla figura di Canio, il protagonista di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Rappresentata per la prima volta al Teatro Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892, con la direzione di orchestra di Arturo Toscanini, quest’opera è ispirata a un fatto di cronaca nera avvenuto a Montalto Uffugo, un piccolo paese della Calabria in cui Ruggero Leoncavallo, nato a Napoli nel 1857, trascorse la sua infanzia in seguito al trasferimento del padre Vincenzo, giudice e magistrato. L’intuizione vincente del compositore fu quella di collocare il duplice omicidio all’interno di una compagnia di teatranti, istituendo in tal modo un’ulteriore finzione dentro la finzione, e di imperniare una vicenda d’amore, tradimento e furia omicida intorno al duplice ruolo di Canio, Pagliaccio tradito sulla pubblica scena da Colombina e nella vita privata da sua moglie Nedda. Ciò che colpì profondamente gli spettatori – al punto da decretare ai Pagliacci un successo clamoroso e inarrivabile, come ricordano Mauro Lubrani e Giuseppe Tavanti nella loro accurata biografia di Ruggero Leoncavallo (Ed. Polistampa, 2007) – fu proprio la figurazione di questo personaggio: nonostante sia fortemente turbato dalla rivelazione del tradimento di sua moglie, si prepara ad entrare in scena da ilare Pagliaccio: “Vesti la giubba e la faccia in farina / La gente paga e rider vuol qua / E se Arlecchin t’invola Colombina /Ridi Pagliaccio, e ognuno applaudirà! / Tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto, / In una smorfia il singhiozzo e il dolor. / Ridi Pagliaccio, sul tuo amore infranto / Ridi del duol che t’avvelena il cuor!”.

Enrico Caruso

È la nascosta sofferenza di Canio a dare memorabile risalto ad ogni particolare del trucco di scena, della vestizione, del suo stesso mestiere, consacrando nella maniera più insidiosamente suggestiva il patetico topos del buffone costretto a provocare il riso pur con la morte nel cuore. E se pure quella sofferenza si tradurrà in furia omicida, scardinando la finzione e trascinando Canio ad uccidere realmente sul palco la doppiamente traditrice Nedda/Colombina e il suo amante Silvio, non sarà tanto questo epilogo a infiltrarsi nell’immaginario collettivo quanto il momento precedente: quello in bilico tra farsa e tragedia, finzione e realtà espresso per l’appunto dall’aria Ridi Pagliaccio. Incisa anche da un tenore del calibro di Enrico Caruso in un disco che fu il primo a superare il milione di copie vendute, quest’aria è destinata a vita lunghissima: passa nel corso del Novecento attraverso film, romanzi, commedie, canzoni, fumetti per approdare ai nostri giorni. In una doppia veste: nel film fantapolitico di Giovanni Caporioni e Claudia Fornari che riferendosi all’attuale scenario sociale, politico e culturale provocatoriamente s’intitola Ridi pagliaccio e nell’originale rilettura dell’opera di Leoncavallo, offerta dal regista Mario Martone nella rappresentazione in scena alla Scala di Milano nel gennaio scorso. Uno dei primi artisti a lanciarsi in questo redditizio filone – di commozione e di incassi – fu Fausto Maria Martini con una commedia che fin nel titolo è un esplicito omaggio alla celeberrima aria: in Ridi pagliaccio, rappresentata il 23 gennaio 1919 al Teatro Nazionale di Roma, il buffone dal cuore infranto è Giovanni Schiffi, in arte Flik, che recatosi dal medico per una profonda depressione provocata da delusione amorosa si sente consigliare di andare a vedere un certo Flik, comico a cui è impossibile resistere. Qualche anno dopo, tocca al cinema raccogliere il testimone: prima con Laugh, clown, laugh (1928) del regista Herbert Brenon, in cui il clown Tito, innamorato senza speranza della bella Simonetta – casualmente lo stesso nome dell’amata di Giorgio Schiffi alias Flik nella commedia di Martini – si sente dire dal suo partner artistico Simon “Ridi, pagliaccio, ridi anche se il tuo cuore si spezza”; poi con Ridi pagliaccio film girato nel 1941 da Camillo Mastrocinque, sarcasticamente riassunto dal critico Morandini in questi termini: “Un’impiegata va in prigione per salvare il fidanzato ladro, quando esce lui l’ha piantata. Torna al paesello ma la mamma è morta. Tenta di annegarsi ma è salvata da un acrobata di circo. Si innamorano, si sposano ma torna il fedifrago che l’insidia. Se si aggiungono le romanze di Leoncavallo dai Pagliacci il calice delle emozioni trabocca”.
Ma gli irresistibili quanto insidiosi effetti delle romanze di Leoncavallo si riverberano anche in altri film a noi più vicini e presumibilmente più smaliziati: se ne Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) c’è la celebre sequenza in cui Al Capone, interpretato da Robert De Niro si commuove ascoltando l’aria cantata da Enrico Caruso, in una delle scene iniziali del film Ti voglio bene, Eugenio, girato da Francisco José Fernandez nel 2002, la macchina da presa indugia sul primo piano del protagonista estasiato davanti all’interpretazione di Luciano Pavarotti. E poi c’è il mondo della musica pop a dare il suo contributo per una colonizzazione più estesa e capillare: l’album Ridi, pagliaccio che la sublime clownesse Mina, ritratta in copertina con una torta di panna a mo’ di copricapo, pubblica nel 1988; Michael Bolton che nei suoi concerti inserisce trionfalmente l’aria di Leoncavallo e un sorprendente Freddie Mercury che inizia il pezzo It’s a hard life con un suo particolarissimo omaggio al buffone dal cuore infranto.
Non risultano immuni al contagio neppure i cartoons: nella celebre serie dei Simpson tocca a Krusty, clown irridente e maligno, calarsi nel ruolo di Canio, mentre nella serie a fumetti di Alan Moore e David Gibbons Watchman uno dei personaggi ripropone in chiave postmoderna qualcosa di antico e patetico, e precisamente quella storiella già raccontata nell’anno di grazia 1919 dal crepuscolare Fausto Maria Martini: l’aneddoto del depresso che va dal medico e, sentendosi consigliare lo spettacolo del grande comico Pagliacci, scoppia a piangere disperato: “Io sono Pagliacci!”. E se la potenza metaforica del Ridi Pagliaccio è riscontrabile perfino in alta quota, nei territori dell’alpinismo estremo (così si chiama, infatti, la via aperta nel 1996 da Avanzini, Maghella e Pasquelli in Trentino Alto Adige, nella parete di sesto grado del Sarca) e a bassa quota nella superficie virtuale di molti blog, (cliccare per credere) è pur sempre nel teatro e nella letteratura che dà il meglio di sé. Nella letteratura con un suggestivo quanto inconsueto giallo di Maurizio de Giovanni intitolato Il senso del dolore e pubblicato da Fandango 2007 (nella prima stesura si chiamava Le lacrime del pagliaccio), che ha come protagonista un famoso tenore dell’epoca fascista che viene assassinato nel camerino del Teatro San Carlo di Napoli proprio mentre, col costume di scena di Canio, si appresta a fare la sua entrata.
Nel teatro, con l’ironica rivisitazione offerta da David Larible nel suo spettacolo Il clown dei clown: mentre Gensi, artista spagnolo che impersona il Bianco, inizia a intonare l’aria dei Pagliacci, David, inserviente maldestro, si sporca involontariamente la faccia poi si guarda allo specchio e finalmente si riconosce. È così che nasce il suo clown: con una sorta di gioioso esorcismo, prendendo giocosamente le distanze dal pathos e dal patetico.
Maria Vittoria Vittori

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