La scuola di recitazione Quelli di Grock opera a Milano da più di trent’anni e sin dai primi tempi ha adottato una chiara impostazione di derivazione circense, soprattutto nelle istanze dettate dal nouveau cirque francese in termini di training e di commistione tra danza, teatro e mimo.
Nasce nel 1976 ad opera di alcuni ex allievi della Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi, tra i quali Maurizio Nichetti, e da subito si incentra sulla pedagogia dedicata ai giovani.
Oggi i corsi sono pensati per diverse fasce di età e per diverse esigenze: il corso per la formazione di attori professionisti ha una durata di tre anni e ha sfornato dei veri talenti. Ma non è solo la recitazione ad essere oggetto di studio: la scuola possiede anche corsi di mimo, teatro danza e acrobatica, dizione, canto e doppiaggio oltre che aver mantenuto una serie di progetti legati al teatro-ragazzi e ai bambini. Insomma, tutto quello che può essere indispensabile in un completo training per la formazione di un artista. Ogni anno la stagione è ricca di produzioni, tutte accomunate dalla cifra stilistica dell’energia, del colore e, soprattutto, del movimento. Qualche esempio: Caos, Cinema Cinema, La Clè du Cahpiteau. Inoltre la scuola possiede un teatro, il “Leonardo da Vinci”, dove poter mettere in scena i propri spettacoli e saggi di fine anno.
Nella Milano anni ’80 Alessandro Larocca e Andrea Ruberti sono stati soci fondatori di Quelli di Grock e oggi sono sempre operativi come attori (a marzo saranno in scena nei panni di Vladimiro e Estragone in Aspettando Godot) e soprattutto come insegnanti.
Cominciamo con qualche nota biografica…
Andrea: Come mimo inizio il mio percorso nel 1989, anche se all’inizio volevo essere musicista e chitarrista. Paradossalmente pensavo che fosse più facile lavorare nel mondo della musica che non fare il mimo e il clown. C’è da dire che però, sebbene non pensassi di farne un lavoro, le figure di mimo e clown mi sono sempre state care, una vera passione. Inoltre ero un bambino molto timido, e il mondo del silenzio era per me naturale. Una volta entrato alla scuola Quelli di Grock, e qui ho incontrato Alessandro…
Alessandro: Sin da piccolo ho sempre fatto sport e volevo diventare maestro di ginnastica, iscrivermi all’Isef. Mi sono imbattuto nella figura del mimo quasi per caso: in giro per Milano c’erano dei manifesti che pubblicizzavano una scuola di mimica, e io ne rimasi affascinato…più che dall’idea del corso proprio dal manifesto, che raffigurava Asker Pandolfini, allora direttore della scuola. Così mi iscrissi e ci rimasi per i tre anni successivi; poi mi formai come insegnante. Quello era un periodo molto fervido per l’arte di strada e per la clownerie. Nella sala azzurra della Paolo Grassi ho avuto la fortuna di vedere artisti come Marcel Marceau o Jacques Lecoq, e da loro mi sono nutrito.
Come si svolgeva il lavoro sul palcoscenico?
Andrea: La partenza era sempre la fisicità. Si cominciava da un tema e lì si improvvisava sulle musiche scelte dal regista. L’importante era proprio il momento corporeo, lo stare fisico: in teatro prima si sta, poi si fa. La drammaticità parte dal centro, come motore, movimento, intenzione ed emozione. Il volto è la parte più espressiva che abbiamo, le tecniche del mimo classico sono quelle che mirano ad annullare il volto per lasciar parlare il corpo.
Alessandro: La scrittura vera e propria, la parola, entrava in gioco in un secondo momento. E sempre a sottolineare un gesto, un’azione.
Che tecniche corporee usate nel vostro lavoro?
Andrea: Come base c’è la mimotecnica di Decroux. Un grande contributo ci è stato dato dalla danza, contaminata con il mimo. Rispetto al mimo classico la danza contemporanea è in continua evoluzione e si possono esprimere concetti più vicini a noi.
Parliamo invece della figura del clown…
Andrea: Io ho un autentico amore per il clown e per la concezione della sua corporeità. Il clown ha un continuo rapporto di ascolto con il proprio corpo. E poi la questione dell’energia: di solito il clown bianco ha un’energia che è centrale, la assorbe. Lui in pista sta al centro, mentre il rosso spezza quest’energia, si avvicina al pubblico per farselo complice e poi ritorna accanto al bianco. Il rosso l’energia la spande. Il clown è l’anima infantile, il bambino che ancora non ha costruito tutte le barriere che chiudono il suo corpo. Il clown è un soffio dell’anima.
Alessandro: Io lo dico sempre, è l’attore completo per eccellenza, sa fare tutto. Un clown sa recitare, ballare, suonare, sa fare l’acrobata. Lui entra in pista e la invade. Del resto un clown non può permettersi di essere parziale nei confronti del pubblico. Sembra un burlone, invece è un grande tecnico: abbellisce, imbruttisce, trasforma il proprio corpo grazie alla sua tecnica che è in continua evoluzione.
Quali figure, passate o presenti, di mimi o clown vi hanno influenzato?
Andrea: Stan Laurel e Oliver Hardy. Per me sono davvero una materia di studio, li utilizzo spesso come esempio per il peso del corpo che hanno, per il respiro che traspare.
Alessandro: Anche io condivido pienamente il parere di Andrea su Stanlio & Ollio.
Andrea: Poi sono affascinato da Michel Courtemanche, oppure dalla drammaticità di George Carl. Perchè è dal dramma che nasce la risata: il clown cade e la gente ride. Il mio lavoro nasce sempre da un pensiero drammatico.
Alessandro: O Buster Keaton. Intorno a lui crollano le case e il suo volto rimane di gesso. Un altro mio mito è Jango Edwards, che è riuscito a trovare della poesia anche nella volgarità. A suo tempo è stato davvero un mito, riempiva le sale con la sua energia.
Chi di voi è il bianco e chi il rosso?
Alessandro e Andrea: Siamo in grado di scambiarci i ruoli, non siamo fissi. Un po’ come accadeva a Stanlio e Ollio: si scambiavano i ruoli di spalla l’uno con l’altro.
In che cosa, nel vostro lavoro, vi siete ispirati al circo?
Andrea: Le situazioni in cui vivevamo hanno contribuito perché all’inizio la nostra compagnia era un po’ una famiglia circense. E come a loro capita di arrivare su una piazza da ripulire per farne un luogo di vita e lavoro a noi capitava ugualmente di arrivare in un posto e doverlo rendere dignitoso per allestire lo spettacolo.
Che segni avete preso dal circo nella realizzazione dello spettacolo La Clè du Chapiteau?
Alessandro: I più classici, come la figura del clown, dell’acrobata, l’equilibrista. Il senso del dovere. Tutti hanno un compito, non esiste che arriva qualcuno coi guanti bianchi e pretende di non far nulla. I numeri clowneschi sono stati più evocati che non rappresentati, per poter rendere l’atmosfera, gli odori, i sapori del circo.
Andrea: La morte, il pericolo costante che i circensi corrono svolgendo il proprio lavoro. Poi il senso di gerarchia e della famiglia.
Oltre che attori siete anche pedagoghi: come si riflettono le vostre tecniche sul lavoro a contatto con gli allievi?
Andrea: Crediamo più in un passaggio di esperienze. Il lavoro si fonda principalmente sul corpo, sulla consapevolezza che si ha di esso, sul saperlo ascoltare, renderlo un corpo accogliente, espressivo e libero. Si insegna che spesso, prima dei limiti, ci sono molte possibilità tutte da scoprire.
Alessandro: Quando incontriamo i giovani cerchiamo di far capire loro l’importanza del corpo, non importa come esso sia perché in ogni caso è inimitabile. Naturalmente ci vogliono molto lavoro e molta serietà.
Stefania Ciocca