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A scuola da “Quelli di Grock”

Alessandro Larocca e Andrea Ruberti (foto Stefania Ciocca)


La scuola di recitazione Quelli di Grock opera a Milano da più di trent’anni e sin dai primi tempi ha adottato una chiara impostazione di derivazione circense, soprattutto nelle istanze dettate dal nouveau cirque francese in termini di training e di commistione tra danza, teatro e mimo.
Nasce nel 1976 ad opera di alcuni ex allievi della Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi, tra i quali Maurizio Nichetti, e da subito si incentra sulla pedagogia dedicata ai giovani.
Oggi i corsi sono pensati per diverse fasce di età e per diverse esigenze: il corso per la formazione di attori professionisti ha una durata di tre anni e ha sfornato dei veri talenti. Ma non è solo la recitazione ad essere oggetto di studio: la scuola possiede anche corsi di mimo, teatro danza e acrobatica, dizione, canto e doppiaggio oltre che aver mantenuto una serie di progetti legati al teatro-ragazzi e ai bambini. Insomma, tutto quello che può essere indispensabile in un completo training per la formazione di un artista. Ogni anno la stagione è ricca di produzioni, tutte accomunate dalla cifra stilistica dell’energia, del colore e, soprattutto, del movimento. Qualche esempio: Caos, Cinema Cinema, La Clè du Cahpiteau. Inoltre la scuola possiede un teatro, il “Leonardo da Vinci”, dove poter mettere in scena i propri spettacoli e saggi di fine anno.
Nella Milano anni ’80 Alessandro Larocca e Andrea Ruberti sono stati soci fondatori di Quelli di Grock e oggi sono sempre operativi come attori (a marzo saranno in scena nei panni di Vladimiro e Estragone in Aspettando Godot) e soprattutto come insegnanti.
Cominciamo con qualche nota biografica…
Andrea: Come mimo inizio il mio percorso nel 1989, anche se all’inizio volevo essere musicista e chitarrista. Paradossalmente pensavo che fosse più facile lavorare nel mondo della musica che non fare il mimo e il clown. C’è da dire che però, sebbene non pensassi di farne un lavoro, le figure di mimo e clown mi sono sempre state care, una vera passione. Inoltre ero un bambino molto timido, e il mondo del silenzio era per me naturale. Una volta entrato alla scuola Quelli di Grock, e qui ho incontrato Alessandro…


Alessandro: Sin da piccolo ho sempre fatto sport e volevo diventare maestro di ginnastica, iscrivermi all’Isef. Mi sono imbattuto nella figura del mimo quasi per caso: in giro per Milano c’erano dei manifesti che pubblicizzavano una scuola di mimica, e io ne rimasi affascinato…più che dall’idea del corso proprio dal manifesto, che raffigurava Asker Pandolfini, allora direttore della scuola. Così mi iscrissi e ci rimasi per i tre anni successivi; poi mi formai come insegnante. Quello era un periodo molto fervido per l’arte di strada e per la clownerie. Nella sala azzurra della Paolo Grassi ho avuto la fortuna di vedere artisti come Marcel Marceau o Jacques Lecoq, e da loro mi sono nutrito.
Come si svolgeva il lavoro sul palcoscenico?
Andrea: La partenza era sempre la fisicità. Si cominciava da un tema e lì si improvvisava sulle musiche scelte dal regista. L’importante era proprio il momento corporeo, lo stare fisico: in teatro prima si sta, poi si fa. La drammaticità parte dal centro, come motore, movimento, intenzione ed emozione. Il volto è la parte più espressiva che abbiamo, le tecniche del mimo classico sono quelle che mirano ad annullare il volto per lasciar parlare il corpo.
Alessandro: La scrittura vera e propria, la parola, entrava in gioco in un secondo momento. E sempre a sottolineare un gesto, un’azione.


Che tecniche corporee usate nel vostro lavoro?
Andrea: Come base c’è la mimotecnica di Decroux. Un grande contributo ci è stato dato dalla danza, contaminata con il mimo. Rispetto al mimo classico la danza contemporanea è in continua evoluzione e si possono esprimere concetti più vicini a noi.
Parliamo invece della figura del clown…
Andrea: Io ho un autentico amore per il clown e per la concezione della sua corporeità. Il clown ha un continuo rapporto di ascolto con il proprio corpo. E poi la questione dell’energia: di solito il clown bianco ha un’energia che è centrale, la assorbe. Lui in pista sta al centro, mentre il rosso spezza quest’energia, si avvicina al pubblico per farselo complice e poi ritorna accanto al bianco. Il rosso l’energia la spande. Il clown è l’anima infantile, il bambino che ancora non ha costruito tutte le barriere che chiudono il suo corpo. Il clown è un soffio dell’anima.
Alessandro: Io lo dico sempre, è l’attore completo per eccellenza, sa fare tutto. Un clown sa recitare, ballare, suonare, sa fare l’acrobata. Lui entra in pista e la invade. Del resto un clown non può permettersi di essere parziale nei confronti del pubblico. Sembra un burlone, invece è un grande tecnico: abbellisce, imbruttisce, trasforma il proprio corpo grazie alla sua tecnica che è in continua evoluzione.


Quali figure, passate o presenti, di mimi o clown vi hanno influenzato?
Andrea: Stan Laurel e Oliver Hardy. Per me sono davvero una materia di studio, li utilizzo spesso come esempio per il peso del corpo che hanno, per il respiro che traspare.
Alessandro: Anche io condivido pienamente il parere di Andrea su Stanlio & Ollio.
Andrea: Poi sono affascinato da Michel Courtemanche, oppure dalla drammaticità di George Carl. Perchè è dal dramma che nasce la risata: il clown cade e la gente ride. Il mio lavoro nasce sempre da un pensiero drammatico.
Alessandro: O Buster Keaton. Intorno a lui crollano le case e il suo volto rimane di gesso. Un altro mio mito è Jango Edwards, che è riuscito a trovare della poesia anche nella volgarità. A suo tempo è stato davvero un mito, riempiva le sale con la sua energia.
Chi di voi è il bianco e chi il rosso?
Alessandro e Andrea: Siamo in grado di scambiarci i ruoli, non siamo fissi. Un po’ come accadeva a Stanlio e Ollio: si scambiavano i ruoli di spalla l’uno con l’altro.
In che cosa, nel vostro lavoro, vi siete ispirati al circo?
Andrea: Le situazioni in cui vivevamo hanno contribuito perché all’inizio la nostra compagnia era un po’ una famiglia circense. E come a loro capita di arrivare su una piazza da ripulire per farne un luogo di vita e lavoro a noi capitava ugualmente di arrivare in un posto e doverlo rendere dignitoso per allestire lo spettacolo.

Foto Stefania Ciocca

Alessandro: Noi non siamo circensi, e quando abbiamo lavorato alla stesura della Clé du Chapiteau ci siamo fatti problemi e remore a paragonarci a coloro che tutti i giorni rischiano finanche la vita per il proprio lavoro. Però apparteniamo alla stessa mentalità del clown, quella di saper trasformare grazie alla visione distorta della vita. Abbiamo girato per circhi intervistando le persone, in quel caso è entrato in gioco Alessandro Serena che ha contribuito ad aiutarci e consigliarci nell’intento.
Che segni avete preso dal circo nella realizzazione dello spettacolo La Clè du Chapiteau?
Alessandro: I più classici, come la figura del clown, dell’acrobata, l’equilibrista. Il senso del dovere. Tutti hanno un compito, non esiste che arriva qualcuno coi guanti bianchi e pretende di non far nulla. I numeri clowneschi sono stati più evocati che non rappresentati, per poter rendere l’atmosfera, gli odori, i sapori del circo.
Andrea: La morte, il pericolo costante che i circensi corrono svolgendo il proprio lavoro. Poi il senso di gerarchia e della famiglia.
Oltre che attori siete anche pedagoghi: come si riflettono le vostre tecniche sul lavoro a contatto con gli allievi?
Andrea: Crediamo più in un passaggio di esperienze. Il lavoro si fonda principalmente sul corpo, sulla consapevolezza che si ha di esso, sul saperlo ascoltare, renderlo un corpo accogliente, espressivo e libero. Si insegna che spesso, prima dei limiti, ci sono molte possibilità tutte da scoprire.
Alessandro: Quando incontriamo i giovani cerchiamo di far capire loro l’importanza del corpo, non importa come esso sia perché in ogni caso è inimitabile. Naturalmente ci vogliono molto lavoro e molta serietà.
Stefania Ciocca

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