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Il circo estremo spara gli ultimi “proiettili”

I mitici Zacchini

 

Nei giorni scorsi la televisione ci ha riproposto un appuntamento del circo con la morte che ha sapore di tempi lontani. La scena si è svolta nella cornice dello Scott May’s Daredevil Stunt Show, circo itinerante specializzato nel presentare attrazioni da brivido. Un acrobata di 23 anni “sparato” in aria da un cannone, anziché concludere il volo nella abituale rete protettiva si è spiaccicato al suolo sotto gli occhi di un folto pubblico in cui erano presenti molti bambini. E’ una storia, questa, che ha inizio nella seconda metà dell’Ottocento e che ancora, purtroppo, talvolta si ripete. Apro alle pagg. 317-319 della Merveilleuse Histoire du Cirque di Henry Thétard e scorro i nomi elencati nel martirologio: Alexandrini, homme canon, tué a Manchester par una explosion de caisson, vers 1888; Vigneron, homme canon, tué par sa piece a Boulogne-sur-Mer….Non sono molti, i nomi di chi è morto di questa specialità se si guarda al numero di trapezisti, cavallerizzi, domatori morti per incidente di lavoro, ma ciò si deve unicamente al fatto che, per la sua pericolosità, essa è stata appannaggio di poche famiglie. In Italia è d’obbligo ricordare quella degli Zacchini, la cui fortuna a livello mondiale – se la parola “fortuna” è lecita parlando di una storia di successi strepitosi mescolati a lacrime e sangue – ebbe inizio nel 1929 quando John Ringling convinse gli “Zacchini Brothers” e trasferirsi in America per mozzare il fiato agli amatori del Più Grande Spettacolo del Mondo.
L’ultimo della stirpe di questi volatori fu Mario Zacchini, che si faceva catapultare – così si racconta – alla velocità di 145 km l’ora. A differenza di altri compagni di specialità, è morto nel suo letto alla rispettabile età di 87 anni. Un consiglio che dava a tutti coloro che si affidavano al cannone era di “Non guardare mai in basso: serve solo a far venire il mal di testa”.
Ho il ricordo di qualche uomo cannone visto nei primi anni ’70 in due circhi Orfei: prima in quello di Orlando, poi in quello di Nando. Il numero si svolgeva nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo fuori dello chapiteau. L’artista si insediava in un cannoncino e veniva sparato su una rete a una distanza di circa 50 metri per il sollazzo anche di chi non aveva pagato il biglietto. Ricordo, al circo di Nando, un artista di 27 anni conosciuto come John Taylor che in realtà discendeva dalla famosa famiglia dei Munoz. Il suo mestiere era inserirsi ogni giorno in un meccanismo ad aria compressa a 150 atmosfere, subire una spinta di accelerazione pari a 8 volte il peso del suo corpo (spinta superiore anche a quella degli astronauti spediti verso lo spazio) e volare alla velocità di 125 km l’ora fino al punto d’atterraggio posto 50 metri più in là. Prima di lui – raccontava – quel lavoro lo faceva suo padre, Luis Munoz. Un giorno gli accadde di non irrigidirsi dentro il cannone quanto era necessario: la testa gli scattò indietro e fu la fine. Otto giorni dopo la tragedia, e per l’esattezza l’8 maggio 1968, il figlio aveva preso il posto del padre. Paura? Ma certo che ne aveva, e nessuna difficoltà a nasconderla. “Sono in tensione per almeno due ore prima dello spettacolo, e quando me ne sto dentro il cannone in attesa dello sparo mi sembra che passi un tempo infinito”. Però faceva tutto come doveva, perché questo era il suo mestiere, questa la sua vita. Sperando che durasse fino a 35-40 anni. Dopo, una pensione ben rimunerata e benissimo meritata.
Gli Zacchini che volano sparati da un cannone non ci sono più. Ma qualcuno, non italiano, ancora c’è che campa la vita a suon di cannonate. Io ora ripenso, mentre scrivo, a quei giorni del Sessantotto (spesso menzionato, ahinoi, per ragioni assai meno “eroiche”) e mi chiedo se abbia un senso, oggi, che ancora qualcuno rischi la vita così. La risposta del senso comune è ben chiara: no, non ha senso. Eppure la storia del circo è densa di uomini, anche nostri connazionali, che sul gusto della sfida fino ai limiti estremi hanno compiuto l’intera loro parabola. Un nome per tutti, cui ben volentieri ho dedicato una biografia: Egidio Palmiri, la cui equipe non per caso ebbe il nome di “Acrobati folli”. Erano tempi, quelli, in cui l’eroismo poteva essere la svolta giusta per il pane quotidiano. Oggi i tempi sono diversi e a chi non si sente di fare circo estremo va tutta la nostra comprensione. Però a chi ancora ha addosso il gusto di cercare di andare oltre ogni confine, costi quel che costi, non mi sento, davvero non mi sento, di dire che la sua è stata una “stupida fine”. Una fine sì, ma senza aggettivi, col rispetto che si addice a chi se ne va.
Ruggero Leonardi

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